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La Siria in fuga

- 15 Settembre 2013

 Un terzo della popolazione ha lasciato la propria casa. Ma l’Italia è una meta secondaria.

Sette milioni di persone costrette a fuggire per salvarsi la vita. Cinque milioni di profughi ancora in Siria (in termini tecnici si chiamano “internal displaced persons” o “sfollati interni”). Due milioni di rifugiati all’estero, la metà dei quali minorenni. È il primo bilancio di una delle più gravi crisi umanitarie degli ultimi decenni. Un bilancio probabilmente già datato, perché questi numeri – diffusi dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) – sono aggiornati al 3 Settembre scorso: e la guerra, spiegava la Cnn qualche giorno fa, produce un nuovo sfollato ogni 15 secondi.
Dove si dirigono i siriani in fuga dal conflitto? Siamo portati a pensare che ogni emergenza umanitaria sul versante Sud del Mediterraneo produca inevitabili “esodi” verso l’Italia. E l’aumento degli sbarchi nelle aree meridionali dello stivale – solo nel fine settimana, la Guardia Costiera ha intercettato centinaia di profughi al largo della Sicilia – sembrerebbe confermare questa impressione.
E invece no. Il Belpaese è una meta marginale dei nuovi flussi migratori. Stando ai dati diffusi venerdì scorso dall’Unhcr, i siriani sbarcati sulle nostre coste dall’inizio del 2013 sarebbero circa 4.600, i due terzi dei quali arrivati nel solo mese di agosto. Poco meno di cinquemila persone, su due milioni di profughi totali: una goccia nel mare, almeno per il momento.

Verso i paesi confinanti: il caso del Libano
Era già accaduto con la guerra in Libia, e accade oggi con la crisi siriana. Chi fugge da un conflitto non ha tempo di organizzare un viaggio lungo e costoso: di solito, i profughi si dirigono nei paesi vicini, a volte allontanandosi a piedi dalle zone di guerra per guadagnare il confine in poche ore. I dati Unhcr lo confermano: il Libano ospita 720 mila rifugiati siriani, la Giordania 520 mila, l’Iraq 200 mila, la Turchia mezzo milione. Cartina geografica alla mano, non è difficile accorgersi che l’esodo è tutto concentrato nelle aree confinanti.
La situazione più critica si registra probabilmente in Libano, dove gli sfollati siriani rappresentano ormai il 18% della popolazione del paese. I più “fortunati” tra loro hanno trovato riparo nei campi profughi palestinesi: in quello di Chatila, noto per le tragiche vicende dell’inizio degli anni ‘80, gli abitanti sono passati da 10 mila a 16 mila nel giro di poche settimane. Le fragili infrastrutture dell’insediamento sono messe sotto pressione, e molte famiglie sono prive dei servizi essenziali.
Chi vive fuori dai campi non se la passa meglio. Secondo il Cesvi, una Ong attiva nel paese dei cedri, il 20% dei profughi vive senza casa, servizi igienici, acqua ed elettricità. «Tra questi», scrivono gli operatori dell’associazione in una nota diffusa qualche giorno fa, «vi sono anche 150.000 bambini che, non potendo andare a scuola, passano le giornate in strada, giocando tra le macerie e i rifiuti».

Le politiche del rifiuto: Giordania ed Egitto
I profughi siriani, peraltro, non sono sempre ben accolti nei paesi di destinazione. E le politiche restrittive – espulsioni, respingimenti, detenzioni più o meno arbitrarie di richiedenti asilo – non sono monopolio esclusivo dei paesi europei (purtroppo). Se il Libano ha mantenuto sostanzialmente aperte le frontiere, le cose sono andate diversamente in altri paesi del mondo arabo.
In Giordania, ad esempio, il governo ha previsto speciali restrizioni per i profughi siriani di origine palestinese: molti di loro sono stati respinti alla frontiera, altri sono finiti nel campo di Cybercity, dove gli “ospiti” non possono uscire né muoversi liberamente. Amnesty International ha denunciato alla stampa internazionale il caso di Mahmud Merjan, un rifugiato che dopo un breve periodo di detenzione proprio a Cybercity è stato costretto a firmare una richiesta di “rimpatrio volontario”: tre settimane dopo il suo rientro in Siria, è stato ucciso da una pallottola nel corso di una sparatoria in strada.
L’Egitto, dal canto suo, ha imposto ai siriani l’obbligo di munirsi di un visto per attraversare la frontiera, una condizione evidentemente impossibile per chi fugge da una grave emergenza umanitaria. Secondo l’Unhcr, sono numerosi i casi di violenze, arresti arbitrari e persino espulsioni verso la Siria.
Ma a complicare la vita dei profughi non ci sono solo i provvedimenti del governo egiziano. L’arrivo dei rifugiati ha coinciso con i gravi problemi interni del paese, e i migranti sono divenuti i classici “capri espiatori”: alcuni giornali hanno lanciato una campagna di linciaggio mediatico, accusando i siriani di sostenere il deposto presidente Mohamed Morsi. E un popolare giornalista televisivo, Yousef al-Husseini, ha detto chiaro e tondo – di fronte a migliaia di telespettatori – che «se i siriani si immischiano negli affari nostri, li prenderemo a calci»…

Un ponte sul Tigri, nel Kurdistan iracheno
Per fortuna, accanto a queste ondate di xenofobia si registrano anche pratiche concrete di solidarietà e di accoglienza. È famoso il caso del governatorato di Dohuk, la regione del Kurdistan iracheno confinante con la Siria: molti profughi, soprattutto di lingua curda, hanno cercato di attraversare quella frontiera, che però era stata chiusa l’aprile scorso. Di fronte all’aggravarsi della guerra civile, in estate, le autorità irachene hanno riaperto il valico, e per agevolare l’arrivo dei profughi hanno persino costruito un ponte sul fiume Tigri.
L’immagine di migliaia di siriani che affollano il ponte, pubblicata il 16 agosto sul sito delle Nazioni Unite, ha fatto il giro del mondo, divenendo un dei simboli della drammatica vicenda dei rifugiati.

Turchia, Bulgaria, Europa…
Prendiamo fiato, e torniamo un attimo indietro. Abbiamo detto che l’Italia, la Sicilia, Lampedusa – che siamo abituati a considerare le “mete privilegiate” dei flussi migratori mediterranei – sono invece, in questo caso, destinazioni del tutto marginali. Ciò significa che l’Europa non è “appetibile” per chi fugge dal conflitto siriano? Niente affatto. Il Vecchio Continente è ancora un approdo importante: ma chi cerca di entrare in qualche paese della Ue, non passa più (solo) dall’Italia. Con grande sorpresa degli osservatori internazionali, uno dei nuovi “paesi di transito” dei richiedenti asilo è la Bulgaria.
Anche in questo caso, converrà munirsi di una cartina geografica. La Siria confina a Nord con la Turchia, che a sua volta confina con la Bulgaria, Stato Membro dell’Unione Europea. Intendiamoci: il viaggio non è proprio agevole, e per arrivare nel piccolo paese balcanico bisogna attraversare tutto il territorio turco. Ma chi ha abbastanza soldi da spendere può tentare questa strada, forse più sicura dei tanti “viaggi della speranza” nel Mediterraneo.
La Turchia ospita al momento circa 500 mila rifugiati siriani. Di questi, coloro che si dirigono verso il confine bulgaro sono una piccolissima minoranza. Ma i numeri crescono: nel corso del 2013, si registravano 400 arrivi al mese, poi ad agosto sono “sbarcati” (si fa per dire, visto che si parla di una frontiera di terra) 1.500 profughi. E nella prima settimana di settembre si sono registrati già 550 ingressi. Si tratta di cifre record per un paese che non è, di solito, meta di intensi flussi migratori. E difatti i cinque centri di accoglienza per rifugiati, già attivi prima della crisi siriana, sono tutti pieni.
L’atteggiamento delle autorità bulgare è ambivalente. Da un lato, il Governo ha promesso di mettere a disposizione 26 nuove strutture di accoglienza, in modo da fornire una qualche sistemazione ad almeno 10 mila persone. Dall’altro, non mancano casi di violazione del diritto di asilo: secondo il Comitato Helsinki Bulgaro, i processi per “ingresso illegale nel territorio dello Stato” (più o meno l’equivalente del nostro reato di clandestinità) sono aumentati del 75% rispetto all’anno scorso. Molti profughi vengono “trattenuti” nei centri di detenzione in attesa di presentare domanda di asilo: anche per questo, nel centro di Lyubimets, 32 profughi siriani hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro la lentezza delle procedure.

Sergio Bontempelli