Incipit

Un giorno scriverò di questo posto

- 15 Settembre 2013

Pomeriggio. Giochiamo a pallone vicino ai fili del bucato, dietro casa. Jimmy, mio fratello, ha undici anni e mia sorella Ciru cinque e mezzo. Io sto in porta. Comincia così Un giorno scriverò di questo posto, l’autobiografia di Binyavanga Wainaina, appena uscita per 66thand2nd. Il magazine Internazionale ha pubblicato le prime pagine di questo libro e noi ci siamo permessi di fare copia e incolla… Buona lettura!

Ho sette anni e ancora non capisco perché sembra che tutti sappiano quello che fanno e perché lo fanno.
«Non sei grasso» è quello che mi ripete sempre mamma. «Sei in carne».
La palla ce l’ha Ciru. È piccola, magra e dorata. Ha i gomiti a punta, un sorriso pulito, come disegnato a matita. Le divide le guance in parti perfettamente uguali. Corre verso Jimmy, che invece è alto, atletico e scuro.
Ciru è la stella della classe. È il 1978 e andiamo tutti alla scuola elementare Lena Moi. Lo scorso quadrimestre hanno spostato Ciru un anno avanti. Adesso è in seconda, come me, ma nella classe accanto. Nel primo quadrimestre Ciru è stata la migliore della classe. È la più piccola. Gli altri hanno tutti sette anni.
Io rimango immobile tra i paletti di metallo che usiamo come porta e guardo Ciru e Jim giocare. Il fiato caldo mi fuoriesce dalle narici, oltrepassa la bocca e divide in due il mento. Vedo il rosa luccicante delle palpebre. Suoni sparsi mi si riversano nelle orecchie: auto, uccelli, i campanelli delle bici-taxi black mamba, bambini, cani e corvi in lontananza e il programma di musica pomeridiano sul canale radio nazionale. La rumba congolese. La gente fuori dal nostro compound parla lingue di cui conosco il suono ma che non capisco o non parlo – luhya, kikuyu.
La mia risata ce l’ho dentro, lontana, come la macchina che al mattino non parte quando si gira la chiave. A scuola è sempre Ciru la numero uno, quella con le stelline azzurre, rosse e gialle su tutte le pagine. È sempre Ciru quella col vestito bianco che porge i fiori all’ospite d’onore – Mr Ben Methu – il giorno della Festa dei genitori. Se faccio il bagno con lei, ci schizziamo e ridiamo e ce le diamo e presto finiamo in un delirio di risate e lacrime.
Ciru scarta Jimmy, la palla incollata al piede, e viene verso di me. Sono pronto. Sono lucido, sono una molla. Aspetto il pallone. Jimmy la rincorre per bloccarla; si aggrovigliano, hanno il respiro affannato. Qualche istante fa il sole era un unico raggio bianco. Adesso è calato tra gli alberi. Migliaia di minuscoli soli sono disseminati per il giardino, fanno capolino dai buchi, tutti sferici, tutti lanciano miriadi di raggi. I raggi cadono sui rami e sulle foglie e si frantumano in migliaia di soli perfetti, ancora più piccoli.
Quando Ciru ride rido anch’io, e mi ritrovo nella sua risata, poi cadiamo a terra aggrappandoci l’uno all’altra. Sento quella risata che si gonfia ancora prima che le esca di bocca, e cresce anche dentro di me.
So come seguire il suo schema, e anche quello di Jimmy. I miei, di schemi, davanti alle persone incespicano l’uno sull’altro. Mi sento sicuro soltanto quando sto da solo, o quando sogno a occhi aperti.
Ciru ride forte, la bocca rossa spalancata. Il suono balza verso di me, lenzuoli di suono che sventolano, ma sono perso. Braccia, gambe e pallone dimenticati. Le migliaia di soli respirano. Inspirano, ombreggiati e freschi tra le foglie, e io mi lascio respirare; poi sbuffano luce, espirando, e mi riscaldano il corpo. Quando sto per immergermi in tutto questo, un’idea mi cattura.
Il sole non va in pezzi.
Non si disperde in piccole parti quando scende tra gli alberi e le cose. Ogni pezzo di sole è un sole in miniatura.
Sto tornando dentro braccia, gambe e porta, pronto a spiegare a Jimmy e Ciru la faccenda dei soli. Non vedo l’ora. Stavolta sì che mi crederanno. Finalmente non sembrerà la solita scemenza, come capita spesso quando mi guardano, alzano gli occhi al cielo e mi dicono che ho le rotelle fuori posto. Ridillounpo’, mi dicono. Si stanno avvicinando. Jimmy grida. Prima di tornare del tutto in me, mi si rompe qualcosa nell’orecchio. Il pallone mi centra in piena faccia. Cado.
Goool. Migliaia di soli eruttano risate umide; perfino la radio ride. Alzo gli occhi e li vedo tutti e due chinati su di me, grondanti sudore, le mani sui fianchi e i gomiti in fuori.
Jimmy alza gli occhi al cielo e dice: «Tu hai le rotelle fuori posto».
«Ho sete» dice Ciru.
«Anch’io» dice Jim e corrono via, e io voglio alzarmi e correre via con loro. Mi fa male la faccia. Juma, il nostro cane, me la sta leccando. Gli appoggio il viso contro la pancia; infilo il naso nel pelo. Il sole è dietro gli alberi, il cielo è limpido, e io non sono più spezzettato e sparpagliato qua e là. Fatico a rimettermi in piedi. Juma mugola, sembra una macchina che scala la marcia. Spingo i piedi a più non posso, tiro fuori la voce per scagliarla in avanti nel tentativo di aggrapparmi alla loro Risoluzione contro la sete.
«Ehi!» strillo. «Ho sete anch’io!».
Non mi sentono.
Si allontanano dalla cucina, li seguo in mezzo ai ciuffi di erba incolta nella parte alta del giardino, con Juma alle calcagna, mentre svicolano in mezzo ai trattori di Baba, sterzano per evitare la cacca di cane, attraversano di corsa l’ombra e il sole calante, superando piccole eruzioni di termiti tra l’erba kikuyu e mucchi dimenticati di pezzi di ricambio ammassati dietro la siepe che separa la casa dagli alloggi della servitù. Poi si girano, gridano ciao a Zablon, il cuoco che sta fuori a lavare i piatti, con il panciotto bianco e i pantaloni blu e il detersivo Lifebuoy e l’odore di carbonella addosso. Gli grido ciao anch’io; ora seguo bene i loro movimenti. Si fermano, poi girano verso la nostra pista da corsa, giù per il vialetto che dagli alloggi della servitù torna alla cucina.
È lì che li trovo, con il naso di Juma che tartassa la gamba di Jim, e li guardo trangugiare il liquido fresco dai bicchieri, glielo vedo colare lungo le guance. Jimmy ha imparato a buttare giù un bicchiere d’acqua in un colpo solo. Gli scorre per la gola, biglie-bolle che corrono lungo un tubo molle, traslucido, un canale di suono gracidante.
Jim sbatte il bicchiere sul piano della cucina, rutta, e si gira verso di me.
Cos’è la sete? Il mondo si divide in un centinaio di piccoli soli. Sollevo il bicchiere e alzo lo sguardo. Ciru mi sta osservando con il bicchiere già vuoto, mentre si asciuga le labbra sull’avambraccio.

Sono in camera mia, da solo. Ho un bicchiere d’acqua. Voglio provare a trangugiarlo in un colpo solo, come fa Jimmy. Quelle parole, sete, assetato. Sono parole risolute. Spingono ad agire rapidamente. Penso che le parole debbano essere qualcosa di concreto. Di sicuro non possono essere allusioni a cose, immagini vaghe; o sensazioni sparse, mutevoli.
A volte andiamo a rubare le vecchie palline da golf di Baba e le buttiamo nel fuoco. Prima si arricciano, quasi in estasi, come un gatto che si fa accarezzare, poi s’inarcano, cominciano a bollire e a saltellare, e alla fine schizzano via dalle fiamme come pallottole, spellate e libere. Sotto la superficie ci sono strisce di gomma avvoltolate strette, e a quel punto possiamo srotolarle mentre osserviamo la pallina che diventa sempre più piccola, e le strisce di gomma si srotolano così a lungo che sembra impossibile che siano venute fuori da quella pallina piccola e dura.
Voglio avere una sete certa, come Jimmy e Ciru.
L’acqua ha forma e consistenza maggiori dell’aria, anche se è ugualmente priva di colore. Solo con la forma dell’acqua in bocca puoi scoprire il tuo corpo. Perché l’acqua è trasparente. Ti permette di sentire il sapore della bocca, di percepire la forma cilindrica della gola e la rotondità che cresce nella pancia mentre bevi.
Rutto. E mi massaggio la pancia, che brontola. Tormento il rubinetto e mi accorgo che l’acqua, quando scorre forte dal tubo, diventa bianca. Quando scorre veloce, quando esce forte dal rubinetto, ha forma, dimensioni e direzione. Metto la mano sotto il rubinetto e la sento solida.
Un’idea comincia a prendere forma. C’è l’aria, c’è l’acqua, c’è il vetro. Quando il vento soffia forte dà forma all’aria; quando l’acqua scorre forte assume una forma. Forse… forse il vetro è acqua che si muove a ultravelocità, come in tv, quando un supereroe va così veloce, più veloce di un lampo sfocato, e prima che tu possa vederlo muoversi è già tornato migliaia di volte al punto di partenza. No. No. La sete è… è… un’assenza che risucchia, un pesciolino che muove la bocca sulla superficie dell’acqua. Ti distacca dall’assenza onnipresente dell’aria, dal tuo essere che respira; sei un flusso ora, una direzione fissa che scorre, una persona che beve. Sei a un passo dalla fame, che scaturisce da un corpo solido, un corpo che annusa, gusta, vede e ha bisogno di colori. Proprio così!
Eppure — Non so ancora dire perché quelle parole mi lasciano così incerto e meditabondo. Non riesco a farmi scorrere l’acqua giù per la gola senza sforzo. Mi finisce nelle narici e mi strozza. Gli altri hanno un mondo di parole e, in quel loro mondo, parole come assetato hanno lunghezza, larghezza, altezza, consistenza, gli appartengono ciecamente come le dita delle mani e dei piedi, i palloni e le porte. Quando dicono la loro parola, anche i corpi entrano in azione, sicuri e convinti.
Io rimango lì a guardare quelli che rispondono decisi al richiamo delle parole. Posso solo seguirli. Sono quelli che non inciampano o cadono nelle buche che la loro convinzione nemmeno vede. E per questo la loro certezza è il mondo giusto. Poso il bicchiere. Sono io che ho qualcosa che non va.

Stiamo tornando a casa, dopo una giornata in famiglia a Molo. Mangiamo i biscotti House of Manji.
La settimana scorsa Beatrice, che è in classe con me, si è rotta una gamba. Gliel’hanno avvolta nel gesso. Anche lo scaldabagno che abbiamo a casa è avvolto nel gesso. Le dita del piede di Beatrice sono grasse zecche grigie. Lo scaldabagno è un cilindro tozzo, ricoperto da uno strato bianco, duro e appiccicoso, come la nuova gamba di Beatrice.
Ora cammina con le grucce.
Crac è il rumore della crosta che si rompe e sprigiona una dolcezza croccante. Crac! Éclair. Grucce è il rumore di quando si cade e ci si rompe qualcosa. Grucc! Biscotti.
L’Uganda, il paese della mia mamma, è caduto e si è rotto. Grucc!
Il feldmaresciallo Idi Amin Dada, presidente dell’Uganda, si è mangiato uno dei suoi ministri per cena. Ha tenuto la testa del ministro in frigo. Il figlio porta una divisa identica alla sua. Nel notiziario tv stanno fianco a fianco durante una parata.
Ho sonno. Ciru dorme profondamente. Jimmy chiede a Baba di fermare la macchina perché deve fare la pipì.
Devo farla anch’io.
Parcheggiamo in una piazzola affacciata su una valle che si allarga davanti a noi in un puzzle di aziende agricole. È da tanto che voglio camminare tra le linee sconnesse di quel puzzle. Da qui, sempre in lontananza, il mondo è sfocato, indistinto e grazioso.
Voglio scivolare tra quelle cuciture e arrivare dall’altra parte.
Dopo la pipì continuo a camminare: scendo verso valle, supero mamme stupefatte che strappano erbacce, supero un torrentello, attraverso un boma destinato al bestiame col terreno coperto di sterco.
Guarda, guarda, l’albero della febbre!
Ha la chioma riccia, la corteccia dorata e verde che luccica. Sembra scarabocchiata di traverso con una matita affilata, così può conficcare i suoi bordi acuminati nell’anima di chiunque la guardi da lontano. Su di lei non ci si arrampica; è piena di spine. L’albero della febbre.
Una pianta fatta apposta per sognare. Sono deluso che tutto quel paesaggio lontano, azzurro e immerso nella foschia, diventi sempre più reale a mano a mano che mi avvicino: non più luoghi indistinti, dove la chiarezza si fa sfocata, dove la certezza non ha forza e i sogni sono reali.
Dopo un po’ vedo mio fratello Jim che m’insegue; il nuovo gioco è tenerlo a distanza, correre forte, sempre più forte. È eccitante.
Mi stiro fino a diventare un elastico gigantesco, un supereroe allungato a dismisura dalla velocità, come nei cartoni. Sono lungo quanto la distanza che ci separa. Il mondo di luce e vento e rumore mi schiaffeggia il viso mentre corro veloce, sempre più veloce.
Se mi concentro posso farlo entrare dentro di me, posso far entrare tutto l’immenso fruscio del mondo. Stringo i denti, contraggo la pancia.
Eccolo, il momento sta arrivando.
Se riesco a coglierlo, riuscirò a far esplodere la mente fuori da me, a congiungerla con il mondo e a trascinare tutto nel carretto. Come una pallina da golf che schizza via dal fuoco. No! No! Non una pallina da golf! Il mondo mi svolazzerà dietro inutilmente, come… come il mantello di un supereroe.
Sarò libero dalla mia goffaggine, da Ciru, da Jimmy, dai sogni di Idi Amin. Il mondo è un fascio di luce accecante. Il mio corpo si stacca come velcro dagli schemi degli altri.
Più tardi, mi risveglio sul sedile posteriore della macchina. «Eccoci» ama dire mamma ogni volta che torniamo a casa. Ho la pelle calda, e le nocche morbide di mamma mi sfiorano la fronte. Sento diecimila grilli bollenti e fastidiosi che cantano in coro lì fuori. Mi viene voglia di strapparmi i vestiti di dosso e lasciare la pelle nuda nel crepitio della notte. «Shhh,» sussurra lei «shhh, shhh», e mi scivola lungo la lingua uno sciroppo dal sapore rosa, mentre le braccia forti di Baba s’infilano sotto le mie ginocchia. Mi spingono sotto le lenzuola stirate, che formano un risvolto sopra la coperta. Mamma le tira su a coprirmi la testa. Sono una lettera, penso, una lettera incandescente che brucia, e vedo un’enorme lingua che sgocciola sciroppo appiccicoso e sta per leccarmi e sigillarmi lì dentro.
Pochi minuti dopo mi alzo e vado nel letto di Jimmy.