La Siria in fuga

Hala e gli altri

- 15 Settembre 2013

Lontanissimi dal cliché del rifugiato a cui media e tv ci hanno abituati. Ecco chi sono i profughi siriani che sbarcano sulle nostre coste.

Allo scirocco e al libeccio, che tra agosto e settembre spazzano abitualmente la costa orientale della Sicilia e dunque il siracusano, si sono aggiunti in queste settimane altri venti. Di guerra. Arrivano dalla Siria (proprio come lo scirocco). E hanno fatto cambiare le rotte dei migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa.

«Non avevamo scelta. Non possiamo più vivere in Siria, dobbiamo scappare per continuare a vivere». Hala ha 24 anni, lunghi capelli castani, viso rotondo con un velo di trucco e grandi occhi scuri. Le ballerine richiamano la tonalità della borsetta aggancita alla spalliera della sedia. Accanto a lei siede Lin, maglietta immacolata e lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle: «Siamo tutti siriani di origine palestinese», spiega Hala. Dopo lo sbarco al porto di Siracusa, assieme a un gruppo di siriani, è stata trasferita al centro Umberto I.
Nata e cresciuta a Yormuk, il grande campo profughi palestinese della capitale Damasco, Hala non incarna affatto lo stereotipo del rifugiato cui siamo abituati. In primis perché è una giovane donna, che ha sfidato da sola un lungo viaggio via mare (circa sei giorni, stipata su una nave con corca 200 persone a bordo). Ha studiato lingue all’università e vorrebbe continuare gli studi, interrotti a causa del conflitto. Allarga lo sguardo agli altri ragazzi seduti attorno a lei: «Vogliamo studiare, vogliamo lavorare – conclude –. Dobbiamo aiutare le nostre famiglie che ci hanno permesso di arrivare fino a qui e aiutarle a lasciare la Siria».

«Quest’anno è del tutto particolare», sottolinea padre Carlo D’Antona, sacerdote siracusano che da più di vent’anni apre le porte della sua parrocchia a rifugiati, migranti e a tutti coloro che hanno bisogno di aiuto e di accoglienza. «Arrivano in massa i minorenni, i ragazzini, le donne con o senza bambini. Arrivano intere famiglie». Protagonisti di questi flussi non sono più i giovani uomini che vengono qui a cercare un lavoro per mandare soldi a casa. «Questa è gente che taglia i ponti con il passato: siriani che vendono tutto quello che hanno, realizzano un gruzzolo di dollari e partono per farsi una nuova vita – aggiunge il sacerdote che, tra maggio e agosto, ha accolto almeno un migliaio di persone – Chiedono semplicemente di restare qualche giorno, di potersi lavare e riposare. Il tempo necessario a capire dove dirigersi e poi ripartono. Diretti in Norvegia, Germania, Svezia. Ovunque tranne che in Italia».

Chi scappa dalla Siria, solitamente, ha a disposizione sufficienti risorse economiche per pagarsi la fuga. Ma non per questo sono meno disperati. Ci sono ingegneri, avvocati e altri professionisti, famiglie intere che stavano bene e che hanno dovuto vendere tutto per poter partire. Donne come Hama che ha affrontato un viaggio in mare lungo 10 giorni attraverso il Mediterraneo assieme al marito e ai due figli piccoli. Dopo una notte trascorsa all’Umberto I hanno lasciato il centro assieme a una trentina di compatrioti. Ha atteso per ore un taxi, sotto il sole cocente del pomeriggio siciliano: parla poco inglese, quel tanto che basta a far intuire i progetti di questa famiglia: «Germany. Future».

Ilaria Sesana