Vite da rifugiati

Storia di Javed

- 23 Settembre 2013

Non è passato dalla Libia, rischia la vita ma non può avere lo status di rifugiato. Potrebbe lavorare regolarmente ma il suo futuro è appeso ad un filo.

Javed è in Italia da più di due anni. Arrivato nella primavera del 2011, è stato inserito, come molti all’epoca, nel programma Emergenza Nord Africa, nel quale furono fatti confluire gli stranieri che, scappando dalla Libia in rivolta, approdarono sulle coste italiane. Ma Javed (un nome di fantasia, ci ha chiesto lui di restare anonimo), l’Africa non l’aveva mai vista. Lo ha fatto presente, ma nessuno, per un tempo incredibilmente lungo, ha messo a fuoco questo particolare. «Quando sono arrivato al Cara di Bari ho detto tante volte che non venivo dalla Libia – sostiene – ma loro mi rispondevano che non importava, che era lo stesso, che non avevano tempo di dividere le persone. Io parlo bene inglese ed ho provato moltissime volte a spiegare che il mio problema è il Pakistan, è il mio paese, è lì che non posso tornare».
Così Javed, che probabilmente avrebbe potuto accedere ad un progetto Sprar, è invece stato destinato all’Emergenza, un contesto senza progettualità che in numerosi luoghi d’Italia è stato gestito in maniera approssimativa, spesso da personale senza alcuna esperienza e competenza. Dopo il trasferimento in una città del Nord è stato seguito, ha frequentato dei corsi di italiano, imparando la lingua con ottimi risultati. Ma non può lavorare.

«Ho frequentato tanti corsi. Ne ho fatto anche uno di teatro», racconta. «Cercavo di prepararmi in questo modo al futuro». Ma poi è giunto il primo diniego da parte della commissione. La sua storia non è stata ritenuta attendibile. Eccola, la sua storia. Giovane simpatizzante del Movimento per la giustizia – (Pti/ Tehreek-e-Insaf), che alle ultime elezioni è giunto secondo, guidato dal campione mondiale di cricket Imran Khan, è noto per le posizioni moderatamente filo-occidentali. La sua odissea è iniziata la mattina in cui è stato avvicinato da alcuni attivisti di un gruppo terroristico locale, che lo avrebbero invitato (si fa per dire) ad aiutarli, pena la morte. Il suo compito avrebbe dovuto consistere nel dirigersi verso il mercato della città con una macchina contenente dell’esplosivo, lasciarla lì ed allontanarsi attendendo lo scoppio.
Secondo il racconto di Javed e le informazioni reperite mediante dialoghi con gli operatori che lo hanno seguito, lui si sarebbe recato alla polizia denunciando l’avvenuto ed evitando quella che sarebbe potuta divenire una vera carneficina; copia della stessa denuncia sembra sia stata depositata durante il ricorso. Un comportamento simile non poteva rimanere impunito. La mattina seguente suo padre è stato barbaramente ucciso. Il corpo, decapitato, è stato portato davanti all’ufficio di Javed, accompagnato da una scritta: “Sono il padre di Javed, nemico dei talebani”. Svolte le funzioni funebri nel pomeriggio, la madre e i fratelli si sarebbero trasferiti in un’altra città, dai parenti delle madre, mentre lui si sarebbe dato alla fuga facendo perdere le proprie tracce anche ai famigliari.
Lasciato il Pakistan, dopo una breve permanenza in Turchia, è giunto sulle coste italiane. «Il primo diniego – racconta – mi è stato notificato perché la Commissione territoriale competente non ha ritenuto attendibile la mia storia. Mi sono state contestate delle cose per me incomprensibili. Mi è stato detto, ad esempio, che la tempistica con la quale ho raccontato di aver seppellito mio padre non è verosimile. Ma in Pakistan non è come qui, noi facciamo tutto in una giornata; le nostre tradizioni sono diverse. Mi è stato detto che la polizia sicuramente mi avrebbe protetto dopo la mia denuncia. Ma non sono previste scorte o protezioni in questi casi, non da noi». E non solo in Pakistan, c’è da aggiungere. «Non mi aspettavo una risposta negativa, è stato un brutto colpo». Nell’ottobre 2012 il Governo, mediante una circolare del Ministero dell’interno, ha invitato le Commissioni territoriali a concedere il riconoscimento di protezione umanitaria a tutte le persone inserite nel progetto Ena che si sarebbe dovuto chiudere a dicembre, ma che poi è stato protratto. «Un giorno, verso metà febbraio 2013 – ricorda – gli operatori che mi seguivano sono venuti nel posto che mi ospitava e mi hanno detto che, non essendo mai stato in Libia, non solo non avrei ricevuto la protezione umanitaria ma non avevo neppure il diritto di rimanere in accoglienza fino all’esito del ricorso. Mi è stata data una settimana di tempo e poi me ne sono dovuto andare. Non avevo un luogo in cui dormire, ma avevo ancora il mio permesso di soggiorno per richiesta di asilo politico e stavo continuando il tirocinio: non potevo lasciare la città».
Vagando tra alloggi di fortuna, infine, è riuscito a trovare un piccolo appartamento che condivide con un connazionale. I proprietari del pastificio in cui faceva tirocinio, entusiasti del suo operato ed intenzionati a stipulare un contratto di lavoro a tempo indeterminato, attendevano solo l’esito del ricorso e l’arrivo del suo documento definitivo. Invece è sopraggiunta l’ennesima risposta negativa.
«Il mio “capo” ha voluto presentare al giudice una lettera di referenze e l’impegno all’assunzione qualora mi fosse stato concesso il permesso. Ma io non potrei essere in Italia ora». Ride amareggiato. Il rilascio di un permesso di soggiorno, in caso di appello, è a discrezione del prefetto. «Ora non so cosa fare. Ho presentato un nuovo ricorso, è la mia ultima possibilità. Ho consegnato tutte le carte in mio possesso, ma sono dovuto scappare dal Pakistan dopo l’uccisione di mio padre e non mi è stato possibile mantenere i contatti diretti».
Ciò che appare come evidente conseguenza dello strabismo di una legislazione inefficace è che Javed parla perfettamente italiano, è  integrato nel tessuto sociale della città nella quale risiede e, in un certo senso, contribuisce anche alla sua crescita culturale. «Continuo a rimanere sul territorio, lavorando in nero ogni tanto e sperando che la polizia non mi chieda i documenti». Sa cosa fare anche in caso di fermo: «L’avvocato mi ha detto di portare con me copia del ricorso in appello da mostrare alla polizia che, se clemente, potrebbe decidere di lasciarmi andare. Non lo so, non voglio pensarci, nessuno mi ha mai chiesto i documenti da quando sono in Italia». In effetti i colori chiari della sua persona non corrispondono allo stereotipo  del musulmano.
Se dovessero fermarlo per un controllo potrebbero lasciarlo andare, ma anche decidere di destinarlo ad un Cie, in attesa di essere espulso – il ricorso non sospende l’esecuzione del rimpatrio. E potrebbe accadere anche che, in caso di esito positivo dell’appello, gli venga notificato il diritto d’asilo in Italia a rimpatrio avvenuto.

Francesca De Luca