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Straniere e IVG

- 23 Settembre 2013

Diminuiscono gli aborti in Italia, ma le donne immigrate sono in controtendenza.

I Paesi che in Europa hanno il più basso tasso di abortività sono Svizzera, Germania, Olanda, Belgio e Italia. Ma anche se in Italia dal 1983 a oggi è il numero delle Ivg è diminuito del 50% risultano ancora alti i tassi per le donne straniere. Qual è la causa di questa differenza?

Il quadro statistico  di riferimento Dalle relazioni che ogni anno fornisce il Ministero della Salute sull’applicazione della legge 194 risulta che dal 1983 al 2011 siamo passati da un tasso di abortività su mille gravidanze dal 27,5 al 16,3, portando a una diminuzione effettiva del 40 per cento. Quando si parla di donne migranti il discorso si complica. A livello di numeri assoluti dal 1995 ad oggi il numero delle Ivg è sicuramente cresciuto: prima, su cento interruzioni di gravidanza, 6,6 erano riconducibili a straniere. Oggi sono 34. Ma se andiamo a guardare i dati Istat, risulta che il tasso di abortività delle donne provenienti dai paesi a forte pressione migratoria dal 2003 al 2009 è sceso con lo stabilizzarsi dell’esperienza migratoria. Rimane però più elevato, come abbiamo già detto, rispetto a quello delle italiane. Le classi di età divergono: rispetto alle italiane che si attestano maggiormente tra fasce iniziali e finali del ciclo riproduttivo, le migranti sono maggiormente presenti nelle fasce centrali (18/34 anni). Le altre differenze sono relative al livello di istruzione (medio alto per le italiane e medio basso per le migranti), e lo stato civile: tra le migranti sono soprattutto le donne sposate a ricorrere alla 194. Altro dato divergente è rispetto alle Ivg ripetute: tra le straniere l’incidenza è doppia rispetto alle italiane.

Perché le cose vanno così «Le donne italiane sono maggiormente consapevoli dei mezzi di contraccezioni come la pillola, tipica del nostro sistema», spiega Mara Tognetti, docente di sociologia all’Università Bicocca di Milano e autrice del libro La salute delle immigrate. «In altri paesi si ricorre ad altri tipi di anticoncezionali. Per esempio, la spirale in Sud America, utilizzata anche in età giovanile. C’è pure il ricorso ad iniezioni anticoncezionali che hanno durata di sei mesi. Noi non possiamo “leggere” le Ivg delle italiane come quelle che avvengono tra le donne immigrate». Le motivazioni sono varie: «Le condizioni migratorie», prosegue Tognetti, «non sempre consentono di avere figli: c’è il rischio di perdere il lavoro; alle volte non hanno una rete di supporto o sostegno, il nostro welfare pensa sempre che ci sia una famiglia dietro una donna». Altre cause possono essere ricercate nella instabilità abitativa o di coabitazione. Una relazione stabile incide come gli aspetti economici. «Ma ci sono donne che si trovano a fare aborti ripetuti perché mosse dal bisogno, in larga parte inconsapevole, di dimostrare di essere ancora fertili». Il contesto di provenienza ovviamente ha un peso: «Non bisogna dimenticare che le popolazioni vengono da contesti differenti con politiche demografiche diverse. In Cina la politica del figlio unico ha segnato generazioni di donne per cui l’Ivg è considerato un normale mezzo di contraccezione. Questo vale anche per molte donne dell’Est Europa». E questo è un fattore che può spiegare come mai tra alcune nazionalità ci sia un numero più alto di Ivg ripetute.

Caso studio: le romene di Arezzo Proprio questa situazione, cioè le Ivg ripetute tra le straniere, ha portato alcune amministrazioni e le aziende sanitarie locali (Asl) ad interessarsi del fenomeno. All’interno di Vivere insieme: quarto rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo, curato da Oxfam, c’è un capitolo dedicato alla situazione delle donne rumene. «Questa ricerca» spiega la ricercatrice Giovanna Tizzi «è stata fortemente voluta dalla Asl per vari motivi. Le Ivg ripetute sono pericolose per la salute fisica e psichica delle donne, ma incidono anche molto sulla spesa sanitaria». Rappresentano inoltre una sorta di fardello frustrante per gli operatori: «Più volte le operatrici sanitarie ci hanno detto che si domandano come sia possibile, dove sbagliano». Lo studio evidenzia che a ricorrere maggiormente alle interruzioni di gravidanza sono, nell’ordine, provenienti da Perù, Nigeria, Romania, Moldavia, Cina. Hanno in media un’età compres tra i 28 e i 40 anni e spesso hanno fatto la prima Ivg nel paese d’origine. I motivi che portano a tale scelte sono solitamente riconducibili ad una situazione socioeconomica sfavorevole, problemi con il partner o una maternità già realizzata. Viene riscontrata con frequenza anche una conoscenza non adeguata dei metodi contraccettivi. Ma per quanto riguarda le rumene emerge una specificità: durante la dittatura di Ceausescu era di fatto vietato usare anticoncezionali e l’Ivg è stata legalizzata nel 1989. Non ci sono state che in epoca recentissima percorsi educativi e preventivi. I prezzi dei contraccettivi sono stati per molto tempo proibitivi. Rimangono ancora i luoghi comuni sulla pillola (fa ingrassare, aumenta la peluria, ecc.) e sugli altri metodi che ne rendono difficoltoso l’uso.

Vittime di Tratta In altri casi, invece, i problemi sono strettamente legati al contesto politico culturale di arrivo: è il caso delle vittime di sfruttamento sessuale. Il tipo di vita a cui sono sottoposte fa sì che siano particolarmente a rischio di Ivg ripetute, sia per irregolarità dello “stile di vita”, sia per le ripercussioni psicologiche che tale situazione comporta, sia per il costo dei contraccettivi. Nel loro caso gli operatori consigliano sempre il preservativo oltre che ad altri metodi anticoncezionali ma non sempre il cliente è d’accordo o alle volte l’offerta di somme più alte le convince a non prendere precauzioni. «Questa situazione fa sì che tra le persone che seguiamo con la nostra unità di strada, ci siano state donne che sono ricorse alle Ivg ripetute varie volte, anche sette o otto» osserva Lisa Bertini della Cooperativa Cat di Firenze. «Oltre alle difficoltà derivanti dallo sfruttamento c’è anche il problema legato all’assenza di un permesso di soggiorno. Quando la legge 194 è stata pensata non c’era ancora un flusso significativo di migranti nel Paese per cui i documenti non erano un problema». Il tesserino Stp (straniero temporaneamente presente) risolve in parte le difficoltà dato che comprende tra le visite mediche essenziali quelle legate alla maternità e all’Ivg. Però… «Succede che certe strutture ospedaliere chiedano anche un documento di identità, per i motivi più disparati, che spesso le vittime di tratta non possiedono», prosegue Bertini. «Questa difficoltà di accesso possono condurre al ricorso ad aborti clandestini, con tutto ciò che ne deriva in termini di rischi per la salute».

Aborti autoindotti Uno degli incrementi registrati riguarda la pratica dell’aborto autoindotto, spesso attraverso l’assunzione di farmaci ad hoc acquistati attraverso reti illegali. In molti casi queste situazioni vengono presentate come aborti spontanei. Da notare che, mentre tra le italiane l’indicatore degli aborti spontanei è rimasto invariato nel tempo, per le straniere e quasi quadruplicato passando dal 5% del 1998 al 17% del 2008. Non ci sono fonti certe visto la difficoltà a reperire informazioni in questi ambiti, ma sembra che farmaci che dovrebbero essere venduti solo con ricetta medica, siano recuperabili facilmente senza, tramite internet. Usati in dose massicce producono o facilitano un aborto spontaneo. Basta digitare il nome di uno di questi farmaci, che su google immediatamente spuntano fuori le istruzioni per l’uso abortivo. «Ma non sono i soli modi per procurarsi un aborto», dice Bertini. «Per quanto riguarda le vittime di tratta alle volte ci pensano le mammane con i ferri o peggio gli sfruttatori con le botte che producono degli aborti che di spontaneo non hanno niente».

Consultori Sono ampliamente utilizzati dai migranti. «È un dato più che evidente e storico, da sempre», afferma Tognetti. «È un servizio più che noto, in particolare per le donne dell’est Europa. Di facile accesso, a bassa soglia, è stato disponibile e flessibile nei confronti delle donne migranti. Ma non è sufficiente». Un altro problema è che le donne migranti tendono a rivolgersi ai consultori quando hanno un problema e mai con l’idea di fare prevenzione. «Non fanno prevenzione, pap test anche dove ci sono dei protocolli strutturati e di facile accesso. D’altra parte c’è una diversa idea culturalmente di maternità, si pensi al mondo arabo e alla medicina cinese. È una questione rispetto alla quale dovremmo tutti interrogarci e anche porre questioni precise agli operatori, che spesso non sono preparati a trattare con utenze diverse da quelle autoctone».

Francesca Materozzi