Scritture meticce

Travolta dalla storia

- 23 Settembre 2013

Intervista all’autrice serba Tijana M. Djerkovic. Il suo ultimo libro, scritto in italiano, è appena stato pubblicato.

Ci sono migrazioni fatte per scelta e non per necessità. Ma questo non annulla il bisogno imprescindibile di ricordare, e raccontare, la propria storia e il luogo da cui si proviene. È il caso di Tijana M. Djerkovic, scrittrice e traduttrice serba che dal 1987 vive ai Castelli Romani ed è sposata con un italiano. Il suo ultimo, bel libro, Inclini all’amore (Playground, 15 euro), scritto in italiano, è stato presentato al Festivaletteratura di Mantova. Ripercorre le vicende della famiglia dell’autrice e, soprattutto, quelle del padre Momcilo, poeta stimatissimo che negli anni ‘50, quando Tito ruppe con Stalin, venne anche internato in un gulag. «Era in corso la guerra di Corea. La Jugoslavia di Tito aveva intrapreso una relazione amorosa e nemmeno tanto clandestina con l’Occidente, riferendo le peggiori cose sull’amante precedente, l’Unione Sovietica. Noi eravamo stati condannati perché ritenuti amici dell’Urss e di Stalin», legge Arianna, protagonista del libro e alter ego della scrittrice, nel diario del padre Vladimir. Una famiglia travolta dalla Storia, che si salva probabilmente anche grazie a quell’inclinazione all’amore cui fa riferimento il titolo. «C’è un filo che lega tutti i miei personaggi. Così come al mondo ci sono persone che sono inclini all’invidia o alla depressione, ce ne sono altre in cui è innata l’inclinazione all’amore: per la vita, per gli altri», spiega Tijana Djerkovic. Ecco cos’altro ci ha detto.

Con questo romanzo ha voluto raccontare ciò che ha patito il suo Paese d’origine durante gli anni del comunismo e della Guerra Fredda?
«No, non l’ho scritto per questo, bensì per fermare nella memoria fatti che, vivendo io all’estero (anche se per me non è più “estero”, ma casa), rischiavano di perdersi: la storia della mia famiglia e del mio Paese, quella che racconto sempre ai miei figli. Voglio che loro la ricordino. Ed è importante per me far sapere anche agli italiani che la Serbia non è stata solo una polveriera, ma un luogo di bellezza. E che, pur essendo vicina, qui è sconosciuta».

La conservazione della memoria è importante per chi parte?
«Ricordare le proprie origini è importante anche se non si emigra. Per me è stato fondamentale raccontare chi ero, visto che spesso, qui in Italia, ho sentito che la percezione che si aveva di me era lontana dalla realtà: mi bastava dire che sono di Belgrado per essere etichettata. Per chi emigra ricordare da dove si viene e cercare di capire dove si sta è ancora più importante. E non è facile: non mi pare che l’Italia sia pronta ad aprire le braccia agli stranieri. O meglio: questo Paese ha un grande cuore e se, quando arrivi, ti trovi in difficoltà, ti dà una mano di slancio. Poi, però, passata l’emergenza, ti ritrovi da solo. Difficilmente vieni assorbito nel tessuto sociale. Il Paese non è strutturato per questo».

Perché ha scelto di scrivere in italiano?
«Non sei tu che scegli in che lingua scrivere, è la lingua che sceglie per te. Quando abitavo in Italia da poco tempo mi pareva che le parole della gioia e della sofferenza potessero essere solo serbe. Dopo tutti questi anni non è più così: ci sono cose che arrivano in italiano, altre in serbo. E io le assecondo. Non so perché ho iniziato questo libro in italiano. A un certo punto il manoscritto era quasi pronto, ma l’idea di non averlo scritto nella mia lingua di origine mi ha fatto entrare in crisi. Mi sentivo a disagio, avevo il timore che in italiano questa storia non potesse essere recepita fino in fondo. Poi ho incontrato a Roma un docente serbo che conoscevo e gli ho confidato la mia ansia. Lui mi ha detto: “Non importa quale lingua hai usato, se è l’italiano ci sarà un motivo!”. Sono tornata a casa e mi sono rimessa all’opera. L’ho finito in 20 giorni».

Aveva già scritto nella sua lingua “adottiva”?
«Solo una specie di diario, uno sfogo dopo i bombardamenti sulla mia città nel ‘99, si intitolava Il cielo sopra Belgrado. Quello è stato l’unico momento in cui la mia certezza di rimanere a Roma ha vacillato ed essere fuori dalla Serbia mi è pesato. Mi chiedevo se fosse giusto stare lontana. Sono andata quattro volte a trovare la mia famiglia durante la guerra, avevo una necessità viscerale di stare con i miei simili. E poi per me l’idea che anche gli italiani partecipassero ai bombardamenti era assurda. I miei figli sono misti, li guardavo e pensavo: com’è possibile? Poi, grazie alle tante persone che mi hanno espresso solidarietà, ho capito che avevo scelto bene il posto dove vivere. La politica è una cosa, la gente un’altra. Questo mi ha tranquillizzato».

Nel romanzo lei sottolinea il ruolo secondario che le donne hanno avuto e spesso hanno nella società. Arianna ama moltissimo suo padre, che è anche il suo mentore, ma a un certo punto sente di essere meno importante del fratello.
«Anche se siamo emancipate, abbiamo ruoli importanti e possiamo raccogliere, idealmente, l’eredità dei padri, c’è un ostacolo burocratico che mi sono trovata ad affrontare anch’io: non trasmettiamo il nostro cognome alle nuove generazioni. Se non c’è un figlio maschio, il nome della famiglia sparisce. E rendersi conto di questo può essere doloroso. Io, a differenza di Arianna, ho un nipote che porterà il cognome di mio padre, ma per scrivere del mio personaggio mi sono calata nei panni di una donna che porta il peso di sapere che, con lei, si spegnerà il nome della famiglia. Arianna si rende conto che, sebbene lei e suo fratello siano, per il padre, affettivamente uguali, non lo sono da un punto di vista anagrafico».

Che ruolo può avere, secondo lei, la letteratura transculturale?
«È un arricchimento, anche nel modo di usare lingua. Molti mi dicono che il mio italiano è diverso: forse perché pur usandolo correttamente, utilizzo costruzioni narrative che ho assorbito alla letteratura serba. Io non ne sono consapevole e non voglio esserlo. Mi piace l’idea di scrivere in un italiano che è solo mio, che apporta alla letteratura del mio nuovo Paese qualcosa di diverso».

Lei dove colloca la sua identità?
«Io non so cosa sono. La mia radice è forte. Per usare un verso di mio padre: “È dalla mia radice che viene il mio dolore”. Ma la verità è che quando sono a Belgrado mi manca l’Italia. E questa nostalgia prova che sono due cose insieme: serba e italiana. Quando vado a Belgrado mi sento italiana perché la cultura che ho assorbito in questi anni ha influito su di me. Ed è normale che sia così, altrimenti non sarei una persona pensante».

Gabriella Grasso