Dopo la tempesta

Modello filippino

Stefano Galieni - 17 Novembre 2013

Ovvero, segregazione occupazionale. Sono oltre 180 mila, lavorano molto e godono in generale di una buona reputazione. Ma sono anche una comunità tra le meno conosciute. Segregazione occupazionale: è probabilmente questo l’elemento cardine che caratterizza – in senso problematico – la presenza filippina in Italia. Presenza che risale ai primi anni Settanta, quando, soprattutto le donne, hanno cominciato a essere ingaggiate come collaboratrici domestiche nelle famiglie più agiate. Da allora, una crescita esponenziale e silenziosa, raramente presa in considerazione dai media. La grande impennata si è registrata negli anni Novanta: l’assenza di stato sociale e l’aumento di richiesta di servizi alla persona ha fatto crescere notevolmente la domanda di lavoro di cura, rendendo l’Italia una meta molto ambita: oggi nel nostro Paese risiedono circa 185 mila filippini e, tra questi, almeno 30 mila sarebbero gli irregolari.

Alla fine del 2011 erano circa 10,5 milioni, fonte Commission on Filipinos Overseas, i cittadini filippini all’estero (inclusi gli irregolari) praticamente un decimo della popolazione dell’immenso arcipelago che costituisce questo Stato. L’emigrazione è stata molto incentivata dai governi. Già nei primi anni Settanta, soprattutto dai Paesi del Golfo, si sviluppava con l’ausilio dei petrodollari un imponente piano di espansione infrastrutturale. In quest’area, come in Europa, c’era richiesta di lavoro. Nelle Filippine, invece, una perdurante disoccupazione, un alto sviluppo demografico e forti problemi nella bilancia dei pagamenti. Quella che doveva essere una misura temporanea – l’esportazione di manodopera – divenne centrale nelle politiche governative. Tanto da suggerire la creazione di un’agenzia governativa, la Poea (Philippine Oversaes Employment Administration) per occuparsi degli ingaggi all’estero. Nel corso degli anni il contributo al Pil del Paese, derivante dalle rimesse, è giunto a rappresentare il 10%. Nel 2008 sono stati oltre 17 miliardi di euro.
L’emigrazione dalle Filippine ha seguito nel tempo due diverse direttrici: una più massiccia, verso i Paesi del Golfo e dell’Asia Orientale industrializzata, pensata come temporanea. Un’altra, quantitativamente meno rilevante, ma più stabile, verso Australia, Usa, Canada ed Europa (in particolare Italia e Regno Unito).
Durante la presidenza di Corazon Aquino, dal 1986 al 1992, i lavoratori emigrati erano celebrati come eroi del paese, erano Bayani nel dialetto Tagalog molto parlato nella capitale Manila. Dietro gli eroi, molto spesso, c’erano famiglie che si distruggevano. L’emigrazione, soprattutto all’inizio, era principalmente femminile e questo ha prodotto, in special modo nelle campagne, una ridefinizione dei ruoli famigliari dagli esiti infelici. I figli, i cosiddetti left behind (lasciati indietro), si sono trovati spesso in condizioni di disagio e devianza. E i padri, altrettanto spesso, hanno abdicato al loro ruolo, rifugiandosi nel gioco d’azzardo e sperperando il denaro delle rimesse.
Secondo Charito Basa, vicepresidente del Filipino Women’s Council in Italia e insignita del titolo di Cavaliere del Lavoro durante il settennato al Quirinale di Carlo Azeglio Ciampi, l’emigrazione è stata un fattore di miglioramento economico e di affrancamento sociale. Ma le donne filippine considerano un dovere imprescindibile sostenere le loro famiglie e migliorare la qualità della loro vita e questo le spinge verso la segregazione occupazionale: lavorare tanto ma sempre in ruoli subalterni. «Bisogna essere all’altezza dell’immagine culturale bayani – dice – il che non fa che aumentare le pressioni sulle donne migranti che si sentono obbligate a soddisfare le domande delle loro famiglie residenti in patria, quindi a far fronte alle necessità quotidiane oltre che alle spese per la salute, per l’istruzione e perfino per acquistare oggetti superflui solo per affermare certi status sociali». Questo lascia poco spazio alla crescita personale o lavorativa.

Il quadro italiano. Si riparte dal dato occupazionale: nel 2011 quasi il 70% dei cittadini filippini presenti in Italia era impegnato nel lavoro di cura e assistenza domestica. All’inizio arrivavano quasi esclusivamente donne sole che si sobbarcavano la famiglia rimasta a casa. A partire dalla fine degli anni Ottanta, il progressivo intensificarsi dei ricongiungimenti familiari ha portato ad un processo inverso. Oggi le donne sono ancora in maggioranza, oltre il 59%, ma soprattutto nelle grandi città il rapporto si va riequilibrando. La comunità filippina è la settima per ordine di importanza numerica in Italia (RapportoMigrantes Unar 2013). La presenza filippina in Italia si caratterizza anche per l’età media alta (fra i 30 e i 45 anni) con forte presenza di ultracinquantenni e lungo soggiornanti (55%).
Comincia anche ad incidere il numero di minori (21,6%, dato relativo al 2010), in gran parte nati in Italia da genitori filippini: circa 17.000 fra il 2001 e il 2011. Nell’anno 2011/12 erano oltre 21.200 i minori che frequentavano le scuole italiane. E gli adolescenti diventano un’ottima cartina di tornasole per inquadrare le aspettative di vita, oltre l’80,3% dopo le scuole medie si iscrive a istituti professionali o al massimo tecnici, preparandosi comunque ad un impiego di qualità non eccellente. E fa effetto sapere che soprattutto le madri, ma anche i padri di questi ragazzi partivano da un livello di formazione più alto: sono spesso laureati o almeno diplomati.
I lavoratori, ma soprattutto le lavoratrici filippine, pur perdendo reddito e avendo ridotto sensibilmente le rimesse da inviare, sono fra le realtà migranti quelli che hanno finora meno risentito della crisi occupazionale. Per certi versi, i tagli al già carente welfare italiano hanno permesso loro di conservare, anche se in condizioni peggiori che in passato, il lavoro.
Lo spirito comunitario è estremamente radicato. In parte connesso al profondo legame che si mantiene con il proprio paese, in parte forse anche al fatto che occupando prevalentemente una nicchia economica, i tempi liberi in cui incontrarsi sono scanditi dagli stessi ritmi lavorativi. Le chiese quindi (in alcune città alcune hanno sia sacerdoti sia fedeli in prevalenza filippini) e le associazioni di ritrovo e di sostegno. Un sistema collaudato che cerca di non lasciar solo nessuno, nelle scuole, attraverso reti specifiche di comunicazione radiofonica nei vari dialetti o con riviste in lingua estremamente diffuse che permettono di seguire l’attualità del proprio paese. E poi associazioni che si occupano di arti marziali, agenzie di viaggio specifiche, strutture per bambini, spazi per musica e teatro, negozi di generi alimentari. Insomma: un tessuto che attraversa la società autoctona ma che solo raramente la incontra se non nei luoghi di lavoro. Permane tuttora, anche nei ristretti ambiti occupazionali una propensione ad evitare rapporti personali con i datori di lavoro. Ci si distingue per fedeltà, obbedienza, abnegazione ma anche per distacco. Fa riflettere quanto, anche persone arrivate da oltre 10 anni, abbiano scarsa dimestichezza con una lingua italiana poco usata e ritenuta utile solo nei rapporti con la pubblica amministrazione.
Alcuni spazi si sono aperti in questi anni, complice anche l’internazionalizzazione accelerata dei percorsi migratori e la nascita di spazi pluriculturali. Un effetto benefico lo stanno producendo in tal senso le nuove generazioni, specialmente quelle nate in Italia, a scapito però della gerarchia dei rapporti tradizionali. Questo distacco culturale, probabilmente dovuto a reciproci meccanismi di diffidenza e di chiusura, ha fatto sì che ad esempio, a differenza di altri paesi, non esistano in Italia pubblicazioni di grandi poeti filippini come Gémino Abad. In Italia, la sola scrittrice di successo di origine filippine (ma che da quando ha 12 anni vive negli Usa) è Melissa De La Cruz, scrittrice di fantasy. Celebre la sua saga che inizia con Sangue Blu (edito da Fanucci). Eppure, in un mondo di oltre 7.000 isole, 17 regioni, 48 province, di cultura, di mitologia, di storia e di produzione letteraria ce ne è molta e da secoli. Resta confinata nel sentirsi filippini.

Stefano Galieni