Gradisca d'Isonzo

Ciack! Si chiude

Stefano Galieni - 20 Novembre 2013

cie freedomIl Cie di Gradisca di Isonzo è vuoto e silenzioso. L’edificio, che un tempo ospitava la caserma Ugo Polonio, a ridosso della statale 305 – le mura alte con le inferriate a rostro, le luci gialle puntate sugli spazi di vita degli “ospiti” – sembra un luogo sospeso. Il 3 novembre è iniziato lo svuotamento del Cie, 36 trattenuti sono stati trasferiti a Trapani (nel Cie di Contrada Milo dove sono immediatamente riprese le sommosse) e 14 sono stati rilasciati. Nei giorni immediatamente successivi anche gli ultimi 10 hanno lasciato Gradisca, sembra in gran parte anche loro per finire in Sicilia. Ufficialmente nessuna chiusura, ma solo il tempo necessario per eseguire i lavori di ristrutturazione per cui occorrerebbero sei mesi. Ma ad oggi nessun intervento sembra iniziato. La struttura ospita anche un Cara e un Cda. Il primo è ancora in funzione anche se meno pieno rispetto alle settimane scorse e scarsa è la presenza nel Cda che è ridotta al minimo. Ora il tempo è come sospeso, chi ha avuto modo di penetrare in quel labirinto elettronico di gabbie e luci, di ferro e cemento, non sa ancora se poter gioire per un sogno avverato o se dover temere che il nastro si riavvolga e tutto torni come prima. Quando di quell’orrore così geograficamente poco diviso da quelli che durante la Seconda Guerra Mondiale erano i campi di smistamento per le minoranze slovene da deportare, poco si sapeva e si voleva sapere. Lo svuotamento ha provocato diverse mobilitazioni. Martedì scorso hanno manifestato sotto la prefettura gli operatori dell’ente gestore, il Consorzio Connecting People. Temono a ragione di perdere il lavoro e lamentano il fatto che da alcuni mesi non viene loro corrisposto lo stipendio. Sabato a scendere in piazza a Gradisca è stato il movimento antirazzista che ha raccolto l’appello lanciato da associazioni locali. L’obiettivo è rendere definitiva la chiusura. «Legacoopsociali – ad esempio – si è impegnata in prima persona in questo evento, così come sabato e domenica scorsi a Trieste. In ambedue i casi, contribuendo a realizzare un legame importante tra movimenti, imprese sociali ed istituzioni». La manifestazione è partita da Piazza Unità d’Italia (la piazza principale della città) ed ha visto la partecipazione di centinaia, forse un migliaio, di persone provenienti soprattutto dai centri sociali del Nord-Est. Arrivare davanti alla caserma priva di prigionieri ha fatto per la prima volta comprendere a molti che forse un passo importante era stato fatto. Ma non erano solo i giovani a gioirne, una parte consistente del mondo associativo non ha mai voluto la presenza della struttura. Durante il III congresso nazionale di Legacoopsociali del 7 e 8 novembre, dalla relazione della presidente Paola Menetti, era stata ribadita la posizione ufficiale contro i Cie e per nuove politiche di accoglienza e inclusione. All’appello hanno aderito associazioni autorevoli come l’Asgi, campagne come LasciateCientrare, attori, scrittori, giornalisti, parlamentari e consiglieri regionali. Fra i nomi Don Luigi Ciotti, Massimo Carlotto, Mauro Biani, Khalid Chouki, Paolo Ferrero e tanti altri. «Le rivolte che nelle scorse settimane hanno avuto luogo nel Cie di Gradisca – è scritto nel testo dell’appello – hanno portato alla sua chiusura per inagibilità, ma già si parla di iniziare la ristrutturazione per una riapertura a breve. Si tratta della goccia che fa traboccare il vaso ed impone a tutti noi di passare dalle parole ai fatti per ottenere la chiusura formale e definitiva del mostro di Gradisca» (http://www.meltingpot.org/16-novembre-No-grandi-opere-Tutti-a-Gradisca-Chiudere.html#.UoU-XeJGP9s). Domenica è stata invece la volta della Lega Nord, che aveva organizzato una iniziativa con largo anticipo. A guidarla l’onnipresente Roberto Calderoli. I leghisti dovevano cancellare le scritte considerate ingiuriose che costeggiano il muro. Peccato che siano già state rimosse alcuni giorni fa. A determinare quella che il ministero si rifiuta di chiamare chiusura, sono state le rivolte continue che – soprattutto da quando i termini massimi di trattenimento sono stati portati a 18 mesi – hanno scandito la cronaca quotidiana di Gradisca. Era divenuto pressoché normale assistere impotenti dal di fuori ad una routine violenta e scontata. In questo reticolo di gabbie senza fine, dopo le sommosse degli anni passati, si applicavano norme ancora più restrittive che negli altri Cie italiani: nessuna possibilità di utilizzare i cellulari, difficoltà di accesso da parte di soggetti esterni, spazi di socialità ridotti e controllo ossessivo di ogni istante della vita dei reclusi. Lacrimogeni sparati all’interno delle celle, storie di pestaggi e di scontri, tentativi di fuga e atti continui di autolesionismo mentre mano mano, gli spazi già ridotti di utilizzo del centro diminuivano. Di queste vicende esistono testimonianze video e le parole pesanti pronunciate da un operatore del centro che ha chiesto di restare anonimo per ovvie ragioni (www.meltingpot.org ). Quest’anno anche i festeggiamenti per la fine del Ramadan erano stati banditi. E proprio dal divieto sono scaturite le rivolte che hanno portato alla rottura finale. Il centro, nato per trattenere 250 ma fino alla chiusura ufficiosa, soltanto per un terzo circa era in parte Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), in parte Centro di accoglienza (Cda). Meno di un centinaio i posti destinati al Cie vero e proprio. «Ma da fuori, per chi vive a Gradisca questa differenza scompariva», dice Genni Fabrizio, dell’associazione “Tavola per la pace e i diritti”. «Gli ospiti erano tutti uguali e tutti ugualmente indesiderati».

Criminali comunque
Il muro della caserma è, secondo gli attivisti che da tanti anni si battono contro il centro, molto più significativo del Cie stesso. «È uno strumento che è riuscito ad inquinare le coscienze – prosegue Genni – Ha realizzato una micidiale campagna di criminalizzazione che è iniziata con la Turco-Napolitano ed è poi proseguita con la Bossi-Fini e le sue degenerazioni, ma ha raggiunto in pieno il suo obbiettivo. La gestione perennemente emergenziale da parte di chi si è alternato al governo è servita a creare una istituzione totale non funzionale alle espulsioni ma efficientissimo strumento di istigazione alla paura. Con la commistione fra Cara, Cie e Cda, non sei neanche credibile facilmente quando parli di detenzione. Si vedono gli “ospiti” uscire e sono accumulati tutti in un unico calderone». Gli attivisti della Tavola sottolineano come il Cie abbia inasprito una guerra fra poveri. Nella vulgata, i soldi spesi per rinchiudere diventano soldi dati ai reclusi. «Gli danno cibo, soldi e vestiti senza che facciano nulla – si legge nei commenti dei giornali locali, e qualcuno giunge a dire – Mandate me a vivere gratis, negli aiuti debbono arrivare prima gli italiani». Durante le rivolte d’agosto, il 13 per l’esattezza, Majid, 35 anni, marocchino, (www.memoriaeimpegno.org) cadde, non si sa ancora se per tentare la fuga o per fatalità, dal tetto, durante una rivolta. Da allora è in coma irreversibile nell’ospedale di Trieste attaccato ad una macchina che lo fa respirare. Su Il Piccolo.it si leggono commenti agghiaccianti in proposito, del tipo: «Crepa presto perché stai consumando la nostra energia, perché rubi un posto agli italiani». Ma Majid è lì fermo, colpevole solo di non essere morto sul colpo. Intanto da marzo scorso risultano indagati in 13 fra funzionari della prefettura e personale della Connecting People. Dalle indagini, in cui è coinvolto anche un vice prefetto, emergono opacità nell’utilizzo dei fondi destinati al centro eppure per la gente comune i criminali sono i rivoltosi. C’è chi in questi giorni, dopo lo svuotamento del Cie, ha parlato (politici, sindacati di polizia) di resa dello Stato di fronte ai “clandestini” e di pericoloso esempio.

Cie di frontiera
Tante le contraddizioni che attraversano, anche partendo dal peso simbolico del Cie, queste terre di frontiera. A Gorizia la linea di confine è cambiata infinite volte, la Storia pesa anche nelle molteplici definizioni identitarie. Si è stati Austria, Jugoslavia, territorio conteso di guerra a tal punto che oggi si rimarca in maniera tremenda la forza e la purezza dell’appartenenza. La caserma Polonio era importante durante la Guerra Fredda. Un retaggio del passato che in queste zone c’è chi considera ancora attuale e presente, con nuove declinazioni. Ora il nemico su cui costruire l’identità italiana è lo straniero di qualunque provenienza, non importa se rifugiato o sbattuto dentro in attesa di espulsione, è altro e questo basta. Ed è ancora Genni Fabrizio a raccontare come aneddoti alcuni elementi emblematici: «Durante il presidio che abbiamo fatto davanti al carcere – racconta – eravamo pochissimi ma la presenza dei carabinieri era spropositata. Tanto è che pensiamo sia intervenuta la polizia a far presente che si stava esagerando. Un funzionario con cui parlavo e che aveva lavorato a Roma mi diceva che a Gorizia in proporzione ci sono molti più agenti e molte più volanti che nella capitale e in questa terra, per tanti anni, le caserme sono sempre state piene e pronte». Una vicenda che ha radici lontane, non a caso a Trieste furono presentate nel 1938 le leggi razziali e, dando una prosecuzione storica ineccepibile, la città in cui Bossi si è recato nel 2001 a illustrare quella che sarebbe poi divenuta la Bossi-Fini è stata Gorizia. Sono e restano i luoghi di frontiera quelli in cui marcare al massimo il ruolo simbolico, oltre che materiale, dei confini.

Oggi e domani?
Comune, Provincia e Regione hanno chiesto pubblicamente che il Cie non riapra. Si sono esposti in interviste, conferenze, dibattiti. Nel Cie a settembre era entrato anche il presidente del Comitato per la difesa dei diritti umani al Senato, Luigi Manconi. Anche a suo avviso il centro era invivibile e ingestibile ed in quelle condizioni urgeva chiuderlo. Aveva dato 3 mesi di tempo per verificare se potevano essere ricostruite condizioni di vivibilità interna ma sapendo che era impossibile. «Sembra di essere tornati indietro nel tempo di 7 anni, ai mesi che precedettero l’apertura dell’allora Cpt – riprende Fabrizio – Anche allora le istituzioni in maniera compatta dichiararono la propria contrarietà. Ma furono solo parole. Chi dichiara di opporsi non può poi cavarsela dicendo che alcune decisioni non sono di propria competenza. Bisogna che gli enti locali accettino di entrare in rotta di collisione col ministero dell’Interno e se ne assumano le responsabilità. Il governo ha fatto fare il “lavoro sporco”, quello per provocare la chiusura di uno spazio che non riusciva più a gestire, agli immigrati. Non poteva assumersi la responsabilità di chiudere il Cie senza perdere la faccia e ha fatto sì che la colpa ricadesse sulle devastazioni provocate dagli “ospiti”. Ora non ha il coraggio di decidere e prende tempo, magari per riaprire sperando in condizioni diverse. Ma quel posto non potrà mai essere reso umano».

Stefano Galieni

P.S. Sono entrato nell’allora Cpt di Gradisca di Isonzo alla fine di gennaio del 2006, quando ancora non era stato aperto, in visita con alcuni parlamentari e consiglieri regionali. Allora uscimmo tutti sconvolti da quel luogo lugubre e destinato a divenire un’efficientissima macchina da reclusione. Forse avevamo capito bene cosa stava accadendo.