La teoria e la pratica

Giù le frontiere?

Francesca De Luca - 20 Novembre 2013

passaporto2È possibile ipotizzare un mondo senza frontiere, in cui basti il passaporto per muoversi da un Paese all’altro? I fautori dalla campagna Pass’ a port – promossa e appena ri-lanciata da Comitato Immigrati di Napoli, Immigrati Autorganizzati di Torino e associazione Jolibà e sostenuta da realtà come il Centro territoriale Mammut, l’associazione Compare, Chi rom… e chi no, Figli del Bronx e dai comboniani di Castel Volturno – ritengono di sì. Pass’ a port e l’annessa raccolta firme punta infatti all’abrogazione del permesso di soggiorno.
Non è la prima volta che qualcuno prova a lanciare sul “tavolo” dei diritti umani e dell’antirazzismo una proposta di questo tipo. Basti pensare alla comunità trasversale e internazionale che ha lavorato alla stesura della Carta Mondiale dei diritti dei Migranti, approvata a Gorée, nel 2011. Essa testualmente recita: “Poiché appartiene alla Terra, qualsiasi persona ha il diritto di scegliere il luogo della sua residenza, di restare laddove vive o di andare ed istallarsi liberamente e senza costrizioni in qualsiasi altra parte di questa Terra. Ogni persona, senza esclusione, ha il diritto di spostarsi liberamente dalla campagna verso la città, dalla città verso la campagna, da un provincia verso un’altra. Ogni persona ha il diritto di lasciare un qualsiasi Paese per andare in un altro e di ritornarci”. E in conformità con questi princìpi si sono mossi gli ideatori della Carovana dello Ius Migrandi e del Festival della Libera Circolazione dello scorso luglio.
Si tratta di una prospettiva forte e carica di suggestioni, che discende direttamente dal riconoscimento del diritto alla libera circolazione. Ma quanto percorribile in concreto? Ne abbiamo parlato con due giuristi che sono anche amici e collaboratori di Corriere delle Migrazioni.
Fulvio Vassallo Paleologo, docente all’università di Palermo, considera quella di abrogare il permesso di soggiorno «un’idea provocatoria ed efficace, ma poco realizzabile dal punto di vista giuridico». E forse anche non prioritaria. In questo momento, l’obiettivo concreto su cui varrebbe la pena puntare è, secondo Vassallo, la circolazione sicura, soprattutto rispetto a chi chiede la protezione umanitaria. Si potrebbe partire da quel visto di protezione, ricordato alla stampa da Christopher Hein, direttore del Cir, previsto da Shengen. «Può essere richiesto in qualunque ambasciata. Questo significa che l’esamina della richiesta non sarebbe effettuata nei paesi di transito (che generalmente accolgono percentuali irrisorie che variano dal 5% al 10% circa). Il visto permetterebbe l’accesso ad un paese dell’Ue nel quale presentare richiesta d’asilo, quando possibile. Previo accordo sulle quote, un potenziale richiedente asilo politico potrebbe così richiedere, in qualunque ambasciata, un visto per l’Italia, per la Germania o per qualunque altro paese dell’Ue, evitando di dover poi ricorrere a viaggi pericolosi e spesso mortali».
Un altro rischio concreto e tangibile è quello di essere imprigionati in un paese di transito (come la Libia) nel quale si registrano quotidiani abusi nei confronti dei fermati. «La volontà dovrebbe essere quella di garantire quanto più possibile gli ingressi regolari, per evitare che i migranti diventino oggetto di soprusi e sfruttamento. Questo, però, deve esser fatto alla luce di un confronto serio sulla redistribuzione delle persone sui territori, tenendo presente la sostenibilità sociale di ogni paese». Il criterio non può essere meramente algebrico: tanti nuovi potenziali cittadini per tanti abitanti. Non si può non tener conto che la Germania ha un livello di benessere e di occupazione superiore all’Italia e che questa, insieme alla Grecia, devono poter disporre di “quote d’urgenza” perché più naturalmente esposte ad arrivi improvvisi. Se i problemi più urgenti sono questi, la prospettiva di una libera circolazione totale, garantita dal solo passaporto, appare come minimo irrealistica.
Della stessa opinione Alessandra Ballerini, avvocato specializzata in diritti umani e immigrazione. «La proposta di cancellare i permessi di soggiorno tout court non è giuridicamente accettabile. Significherebbe cancellare anni di storia di Unione Europea; non è una strada facilmente praticabile». Quello che si può fare invece è prendere decisioni politiche che favoriscano la condizione di legalità sul territorio e che siano allo stesso tempo più rispettose dei diritti umani: «Uno stato può decidere di non richiedere le impronte digitali; si può ipotizzare di incaricare i Comuni, e non più le questure, per il rilascio del permesso di soggiorno; si può pensare a durate più lunghe e meno stringenti; si possono, insomma, cancellare tutte quelle norme che favoriscono l’ingresso nell’illegalità. Più che pensare di abrogare il permesso di soggiorno si dovrebbe lavorare per migliorarlo». Campagne come Pass’a port o documenti come la Carta Mondiale dei diritti dei migranti possono essere utili pungoli in questa direzione, e comunque hanno il merito di tenere alta l’attenzione su questi temi e di essere stati elaborati dal basso. «Un’altra proposta interessante e provocatoria fu quella lanciata dai missionari Comboniani nel 2003», prosegue Ballerini. «Si misero a rilasciare permessi in nome di Dio. Permessi che certificavano il diritto a muoversi e a risiedere dove si ritiene opportuno per costruirsi un’avvenire».

Francesca De Luca