Lussemburgo

La sanatoria è gratis

S. Bontempelli/ E. Daganello - 20 Novembre 2013

7557_luxembourg_castello“Régularisation des ressortissants de pays tiers”, cioè “regolarizzazione dei cittadini di paesi terzi”. Si chiama così il provvedimento, varato dal Lussemburgo, che ha introdotto una “sanatoria” per i migranti privi di permesso di soggiorno. Le domande si potevano presentare nel periodo compreso tra il 2 gennaio e il 28 febbraio di quest’anno, ma il lavoro degli uffici (esame dei dossier, consegna dei permessi di soggiorno ecc.) si è protratto fino all’inizio dell’Autunno: solo oggi, dunque, è possibile tracciare un bilancio dei risultati.

Stiamo parlando di un paese di modeste dimensioni (circa mezzo milione di abitanti), le cui vicende non hanno mai suscitato particolare interesse. In questo caso, però, può essere utile gettare sul piccolo Granducato uno sguardo un po’ meno distratto: perché la regolarizzazione disposta dal Ministro del Lavoro e dell’Immigrazione, Nicolas Schmit, somiglia molto all’analogo provvedimento varato in Italia qualche mese prima. Analoghe le procedure, molto simili i requisiti richiesti ai migranti, identica la Direttiva europea applicata. E a questo punto sarà bene procedere con ordine.

La sanatoria
La “sanatoria” ha origine dalla legge 6404 del 21 dicembre 2012, emanata in attuazione della Direttiva Europea 2009/52/Ce (la stessa che aveva “ispirato” il provvedimento italiano). Le procedure sono state definite nei dettagli il 21 dicembre, con una Note de Service (l’equivalente lussemburghese della nostra circolare ministeriale), e poi – con ulteriori istruzioni – il 3 gennaio, quando il periodo di consegna era già cominciato.

Potevano inoltrare la domanda i datori di lavoro che impiegassero “al nero” manodopera straniera senza permesso di soggiorno. La presentazione dell’istanza consentiva ai datori di non essere perseguiti, e ai migranti di ottenere un regolare permesso di soggiorno. E fin qui, il quadro è identico a quello italiano: anche da noi le domande non potevano essere presentate dai cittadini stranieri, ma solo dai loro datori di lavoro.

Come in Italia: salario minimo e “prova di presenza”
I requisiti erano abbastanza rigidi. Anzitutto, il rapporto di lavoro oggetto di emersione doveva garantire al lavoratore un salario minimo di 1.874 euro lordi al mese: una cifra che potrà sembrare astronomica (circa quattro volte superiore a quella prevista dall’Italia), ma che va parametrata con il quadro salariale del Lussemburgo, assai più “ricco” del nostro.

Anche nel piccolo Granducato, inoltre, i migranti sono stati ossessionati dall’incubo della cosiddetta “prova”. Come si ricorderà, per poter accedere alla “nostra” sanatoria, i cittadini stranieri dovevano dimostrare la loro presenza in Italia prima del 31 dicembre 2011. Ma questa “prova di presenza” doveva essere fornita solo dagli enti pubblici: non era possibile, cioè, produrre testimonianze scritte di associazioni, datori di lavoro o singoli cittadini, ma bisognava munirsi di documenti provenienti da Questure, Ospedali, Comuni. Un vero e proprio incubo, perché difficilmente un “clandestino” intrattiene rapporti con gli uffici pubblici.

Il Lussemburgo ha optato per una modalità più “soft” (e, aggiungiamo, più realistica). Il dossier di regolarizzazione doveva contenere anzitutto una “prova” che dimostrasse l’esistenza di un rapporto di lavoro da almeno 9 mesi: era sufficiente una attestazione del datore di lavoro o di un collega, oppure l’estratto conto bancario che riportasse i pagamenti ricevuti.
C’era poi la prova della presenza sul territorio lussemburghese da almeno 9 mesi. Anche in questo caso, la documentazione poteva essere fornita da diversi soggetti, non per forza pubblici: per esempio si poteva produrre la testimonianza di un vicino, di un collega, del datore di lavoro, oppure il certificato scolastico dei propri figli. Inoltre al momento della presentazione del dossier era necessario presentare due estratti del casellario giudiziario, uno del Lussemburgo e l’altro del paese d’origine.

Gli esiti
I dossier di regolarizzazione presentati dal 2 gennaio al 28 febbraio sono stati 663. La cifra può apparire irrisoria, ma – di nuovo – i numeri vanno parametrati alle dimensioni del Lussemburgo. Quanto agli esiti, al primo luglio 2013 risultavano accolti positivamente 512 fascicoli, con conseguente rilascio del permesso di soggiorno.
La maggior parte degli immigrati che hanno fatto richiesta di regolarizzazione è di origine cinese, brasiliana, montenegrina, capoverdiana e serba, e la metà di loro lavora nel campo della ristorazione.

Questa procedura di regolarizzazione si inscrive in un contesto molto peculiare, su cui vale la pena soffermarsi un attimo. Il Lussemburgo è, in proporzione al numero di abitanti, uno dei paesi a più alta presenza migrante di tutta l’Unione Europea. La popolazione straniera rappresenta il 44,4% del totale dei residenti: la maggior parte dell’immigrazione è di origine europea (in particolare portoghese, italiana, francese e belga), mentre i non comunitari sono 32.700.

Le procedure sono state seguite con attenzione da un gruppo di associazioni vicine alle comunità migranti: tra queste vanno ricordare almeno la Caritas, la “storica” Asti (Association de Soutien aux Travailleurs Immigrés) e la Clae (Comité de liaison des Associations d’etrangère).
Queste sigle non hanno risparmiato critiche al provvedimento: per il poco tempo concesso per la consegna dei dossier, per l’eccessivo potere conferito ai datori di lavoro (gli unici a poter presentare la domanda), per la difficoltà di molti lavoratori di procurarsi in tempo utile i certificati dagli Stati di provenienza.
La coincidenza con le feste nazionali di due importanti paesi di origine degli immigrati, Brasile e Cina, ha rallentato enormemente la consegna dei documenti mettendo a rischio la validità dei dossier.

Una regolarizzazione “gratis”
Seppure disseminata di difficoltà e di “trappole”, la regolarizzazione del Lussemburgo ha avuto un indiscutibile merito, se paragonata a quella italiana. Da noi, per poter accedere alla procedura, bisognava sborsare mille euro di “contributo forfetario”, più svariate centinaia di euro di contributi previdenziali arretrati. Formalmente, queste cifre erano a carico del datore di lavoro: ma chiunque abbia seguito queste vicende sa che, di fatto, erano i migranti stessi a pagare.
In Lussemburgo, l’accesso alla procedura era completamente gratuito. Certo, una volta “regolarizzato” il rapporto di lavoro, il datore avrebbe dovuto pagare le tasse e i contributi previdenziali previsti dalla legge. Ma non c’erano oneri supplementari, arretrati o quote “forfetarie”. A pensar male, si potrebbe dire che in Italia la regolarizzazione è stata varata per “fare cassa”, per rimpinguare i magri bilanci dello Stato (e dell’Inps). Nel piccolo Lussemburgo, almeno da questo punto di vista, le cose sono andate assai meglio…

Sergio Bontempelli
Eva Deganello