Brasile

Colpiti e affondati. Dal ferro dei porci

Diletta Gasparo - 25 Novembre 2013

giulio_di_meo_p.iron_011«I vicini commentano rassegnati mentre dall’altra parte della strada, polverosa e piena di buche, il camion del trasloco comincia a riempirsi. Un sofà, un letto smontato, vestiti ammucchiati e un vai e vieni da dentro a fuori casa, per non dimenticare nulla. I bambini osservano riflessivi: sarà davvero migliore il posto in cui andiamo? Gli abitanti del villaggio di Piquià de Baixo lottano da più di cinque anni per ricostruire le case lontano dall’inquinamento delle siderurgiche, che sono state installate praticamente dentro i cortili di 350 famiglie. E ogni volta che una famiglia se ne va, per proteggere la salute dei bambini o per fuggire dal rumore assordante della termoelettrica, la lotta comune si indebolisce».

E’ un brano tratta da Pig Iron, libro fotografico e autoprodotto nel quale Giulio Di Meo racconta cosa ha visto quando, assieme a Dario Bossi e Francesco Gesualdi, ha viaggiato tra gli stati brasiliani del Parà e del Maranhão. Racconta il dramma delle famiglie di Açailândia. Ma potrebbero essere quelle di molti altri villaggi.

Le condizioni di vita che negli ultimi 25 anni sono state imposte agli abitanti di questi due stati brasiliani sono state caratterizzate da sofferenza, malattia, fame e sfruttamento. Il tutto riconducibile al maggiore produttore di ferro al mondo, la multinazionale Vale: 145.000 dipendenti, un fatturato di 59 miliardi di dollari al 2011 e un premio che non le fa certo onore: nel 2012 è stata insignita del Public Eye Award  e dichiarata la peggiore multinazionale al mondo (il “riconoscimento” è arrivato grazie alla collaborazione con la Norte Energia, che costruendo la diga di Belo Monte ha prosciugato circa 100 chilomentri del fiume Xingu, costringendo circa 40 mila persone ad andarsene dalle loro case).
Nata con il contributo statale, la Vale si trasforma nel dopoguerra in una multinazionale che fonda la sua fortuna sull’estrazione di materie prime nel nord nel Brasile. La svolta arriva però nel 1980 col Programa Gran Carajas che prevede la costruzione di una ferrovia lunga 100 chilometri che permetta di trasportare sulla costa, verso i porti, il ferro estratto nel cuore della foresta amazzonica e anche i 10 milioni di tonnellate di soia prodotte sui terreni deforestati (la produzione di soia da esportazione è infatti uno dei maggiori ma anche più nefasti business del Brasile: ha fatto risorgere il sistema del latifondo, provocato una grave dispersione sociale e migrazioni forzate e distrutto l’ecosistema).
Quella che poteva rappresentare una grande opportunità di sviluppo per il paese, coinvolgendo migliaia di persone nella costruzione di un settore siderurgico avanzato, si trasforma ben presto in un incubo. La Vale decide infatti di puntare sulla produzione della ghisa, il pig iron, ossia il “ferro dei porci”: materia prime disponibili in grandi quantità, procedimenti più corti e soprattutto un lavoro sporco che non potrebbe essere fatto in altri posti con altrettanta facilità.

La zona prescelta  si sviluppa lungo un corridoio di circa 150 chilometri tra Marabà e Açailândia: vengono qui costruiti una quindicina di stabilimenti per la produzione di ghisa. L’impatto ambientale è devastante non solo per la sconvolgente quantità di scorie prodotte (sono stati costruiti tre altoforni ma nessuno di questi è dotati di filtri adeguati) ma anche per la mole di carbone necessaria alla produzione. Per produrre una tonnellata di ghisa occorre infatti una tonnellata di carbone. La foresta amazzonica, già saccheggiata da decenni, non è in grado di assicurare il carbone necessario. Si punta allora sulla coltivazione intensiva dell’eucalipto. Questa pianta ha tempi di crescita molto rapidi e costituisce quindi una fonte inesauribile di legname. La coltivazione intensiva di eucalipto distrugge però l’ecosistema (è una pianta originaria dell’Australia) e interferisce pesantemente anche con il lavoro degli agricoltori del distretto di Açailândia. La multinazionale, infatti, fa un massiccio uso di pesticidi che seccano i raccolti e danneggiano gravemente la salute dei contadini e di quanti, non vedendo altre possibilità, sono andati a lavorare nelle piantagioni di eucalipto.
Spesso il lavoro nelle piantagioni è appaltato ad aziende che, secondo quanto affermano vari rapporti, non tengono particolarmente in conto i diritti dei lavoratori. Nel 2004 la Vale si è trovata in grande imbarazzo quando è stato reso di pubblico dominio che due delle aziende a cui appaltava, la Simasa e la Margusa, erano indagate per servirsi di manodopera ridotta in schiavitù.
Ma a stare peggio sono i lavoratori impegnati nelle carbonaie. La disperazione (e la ricerca di profitto) hanno fatto sì che nel distretto ne sorgessero a migliaia. Alcune sono a conduzione familiare: padre, madre, figli lavorano e vivono anche nella carbonaia, preoccupandosi ventiquattro ore al giorno di produrre carbone, utilizzando qualsiasi tipo i legname. Altre invece sono gestite da singoli e sfruttano il lavoro degli ultimi anelli della catena: persone che hanno perso tutto e sono disposti a sopportare turni massacranti perché non hanno altri posto dove andare. Sono piccoli igloo da cui esce ininterrottamente del fumo, senza alcun tipo di filtro: chi ci vive e lavora è costretto ad inalare ogni tipo di scoria.
Il guadagno che la Vale ha tratto dalle sue attività brasiliane nel 2008 si aggirava intorno ai 90 miliardi di dollari. Di questi solo il 4,5% è andato in salario e lo 0,8% in investimenti sul territorio.
Quando ad un colosso come questo viene permesso di ridurre in ginocchio due stati, depredando il territorio ed uccidendo chi trova sulla sua strada, la migrazione diventa appunto una scelta obbligata. Ed è la scelta che fanno i “bambini del treno” che, di notte, d’improvviso, decidono di saltare su uno di quei vagoni merci che passa davanti ai loro occhi circa dodici volte al giorno e, nascondendosi tra carbone e ghisa, si fanno portare in città, dove si aggiungeranno all’informe schiera dei bambini di strada. Ricordiamoci però che, in un certo senso, anche la migrazione è un lusso: a migliaia non hanno modo di lasciare l’inferno che vivono.

Per contrastare questo stato di cose, qualcosa si può fare, anche in piccolo. Pig iron, il libro fotografico di Giulio Di Meo, ha l’obiettivo aiutare le popolazioni del Brasile straziate dalla Vale. I promotori, convinti che la fotografia sia un potente strumento di informazione e coinvolgimento (senza necessità però di cadere nel pietismo o di catturare il pubblico attraverso lo spettacolo del dolore) hanno elaborato questo progetto così da poter destinare parte del ricavato alla costruzione di un centro di ricerca e comunicazione teatrale gestito dai ragazzi di Açailândia. Il libro si acquista direttamente dal sito www.pigiron.it


Diletta Gasparo

Foto:  Giulio Di Meo