Etnopsichiatria

Urla dal silenzio

Francesca Materozzi - 25 Novembre 2013

Munch a OsloRichiedenti asilo e rifugiati non possono essere considerati propriamente turisti in vacanza. Come vengono affrontate o eluse nel nostro Paese le loro praticamente inevitabili difficoltà psichiche ed emotive? Cosa succede altrove? Due interviste molto istruttive: ad Alberto Barbieri,  coordinatore generale dell’associazione Medici per i Diritti Umani (Medu), e a Françoise Sironi, fondatrice della psicologia geopolitica clinica.

Barbieri, da un punto di vista strettamente medico, è accettabile che persone che sono state vittime di un naufragio vengano “parcheggiate” per giorni in un Centro di Primo Soccorso e Accoglienza, come sta accadendo a Lampedusa?

«Non lo è. Un evento come un naufragio, con le modalità in cui è successo, è estremamente traumatico ed è ovvio che le persone sopravvissute abbiano bisogno, non solo di essere accolte, ma anche avere un’assistenza psicologica. Anche in assenza di danni fisici è estremamente probabile una sindrome post traumatica da stress».

Ci sono state persone accolte nell’Ena che una volta uscite dai progetti di accoglienza, hanno commesso gesti di violenza verso se stessi o verso gli altri. Possibile che nelle strutture di accoglienza non sia stato fatto nulla per prevenire questi episodi?
«C’è un problema enorme legato al sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e destinatari di protezione umanitaria. Fino ad oggi abbiamo avuto un’insufficienza drammatica di posti nello Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) che è il  più virtuoso tra i progetti posti in essere. A gennaio 2014, stando alle informazioni di oggi, i posti Sprar dovrebbero passare da 3000 a 16.000. Già questo fa capire quanto sia stata drammatica la carenza sofferta fino ad ora.  L’Italia riesce a dare i documenti ai rifugiati, ma dopo manca del tutto la parte concreta dell’accoglienza. E questo alimenta, per esempio, il fenomeno dei senza fissa dimora.  Il 40% delle persone che noi visitiamo con la nostra unità mobile a Roma sono migranti forzati, quindi: richiedenti asilo rifugiati protezione sussidiaria o richiedenti asilo in transito per altri paesi europei».

Lo Sprar che fa accoglienza per un periodo di 6 mesi rinnovabili può rispondere all’esigenze di chi ha malattie mentali? È sufficiente solo il progetto Sprar?
«Quando esce da questi progetti, chi ha problemi psichici, facilmente diventa un senza fissa dimora. C’è una forte carenza di intervento da parte del Sistema Sanitario Nazionale. Per quanto riguarda i dipartimenti di salute mentale, ci sono dei problemi enormi legati ai tagli alle spese. Di conseguenza, prendere in considerazione casi di stranieri che sono per strada, che hanno problemi psichiatrici, per i servizi è quasi impossibile. Il risultato è che la fascia più vulnerabile tra i vulnerabili si trova senza assistenza. E molto spesso, invece di essere curati, si trovano in carcere. C’erano dei centri specifici, come a Roma all’ospedale San Giovanni di Dio, che è stato chiuso un anno fa per mancanza di fondi».

La questione è solo quantitativa? Non c’è anche un problema legato alla specificità dell’intervento rispetto allo straniero?
«Certamente. In italia l’etnopsichiatria è ancora poco sviluppata e presente e sono rare anche le equipe formate per seguire problemi specifici come quelli delle vittime di tortura. A Roma, per esempio,  ci sono dei centri, ma sono pochi e hanno seri problemi a reperire fondi. E troppo spesso ci si concentra solo sull’aspetto farmacologico, mentre è evidente che le questioni sono più ampie e complesse».

Quanto incide in tutto questo questo la “particolarità” della malattia mentale?
«I disturbi mentali, ma più in generale il disagio psicologico, sono spesso stigmatizzati e hanno  sempre generato emarginazione, diffidenza, scarsa comprensione da parte della gente. Molto più facile comprendere e trattare una polmonite o un cancro che non una schizofrenia. A questo si aggiunge la diffidenza generalizzata nei confronti dello straniero».

Francesca Materozzi

Nella foto: un murale, ad Oslo, riferito al famoso Urlo di Munch.