Danimarca

L’esperienza della Trampolinehouseset

Ilaria Sesana - 1 Dicembre 2013

trampolino_grado_1920Il sistema di asilo danese si presenta bene ma funziona male. La legge sull’immigrazione è una delle più dure d’Europa (per chi volesse saperne di più, consigliamo il libro di Olav Herghel l’Immigrato). Ma nella “casa Trampolino” si lavora per un modello diverso.

Il Waka waka di Shakira rimbomba nell’aria, ma pochi provano a muovere qualche passo di danza. La maggior parte dei ragazzi è impegnata in un’animata partita a calcetto: urla ed esortazioni in arabo, inglese e tigrino si accavallano. In disparte, vicino al bar, un gruppo formato da persone più anziane preferisce sfogliare un libro o improvvisa qualche accordo con una vecchia chitarra. Una serata come tante alla Trampolinehouseset, la “casa trampolino” a Nørrebro, quartiere nord di Copenhagen.

Un nome che è tutto un programma per questo piccolo edificio di mattoni affollato e rumoroso. «Tutto è nato da una battuta di uno dei nostri soci più anziani – ricorda Morten Goll, uno dei fondatori del centro –. Il ministro dell’Integrazione aveva paragonato il percorso di integrazione degli immigrati a un sentiero di sassi che attraversa un fiume. Un’immagine che non era piaciuta al nostro amico: “Non mi serve un sentiero, mi serve un maledetto trampolino”». Un trampolino per lanciarsi verso una nuova vita.

Il piccolo ufficio di Morten è sempre affollato. Ora c’è una richiesta da mandare, poi un problema da risolvere, un consiglio da dispensare: «Ogni settimana sono circa 200 le persone che frequentano la Trampolinehouseset», spiega. Oltre a lui, a mandare avanti i lavori della casa ci sono quattro operatori e una cinquantina di volontari che animano incontri, workshop formativi, corsi di arabo, inglese e danese, organizzano partite di calcio e feste. Infine, tre sportelli legali che aiutano i richiedenti asilo con le loro pratiche: «Noi non diciamo che a tutti debba essere riconosciuto lo status di rifugiato – sottolinea Morten –. Ma crediamo che per avere un trattamento equo tu debba conoscere il sistema e avere un buon avvocato. Purtroppo, questo non avviene per tutti».

Il sistema d’asilo danese presenta infatti diverse criticità. La principale, come sottolinea Morten, sono i campi dove vengono trattenuti i richiedenti asilo in attesa che venga valutata la loro domanda. Le strutture, gestite dalla Croce Rossa, non hanno nulla a che vedere con i nostri Cara: ci sono piccoli appartamenti per le famiglie e piccole stanze a quattro posti per gli uomini, ci sono spazi gioco per i bambini, campi di calcio, l’internet center, si organizzano corsi di lingua. A prima vista tutto è funzionale e pulito. Gli ospiti sono liberi di uscire e andare dove vogliono.
Già, ma andare dove? I centri sorgono in aperta campagna, lontani dalle principali città e molti richiedenti asilo non hanno i soldi per pagarsi l’autobus o il treno per raggiungere Copenhagen. Inoltre, i tempi del trattenimento sono molto lunghi: «È uno spreco di vita. Ho visto poche persone ottenere i documenti in tre mesi, ma la media è di 18 mesi – spiega Morten –. Tanti restano confinati nei campi per tre o quattro anni. Ma non sono mancati casi più complicati con trattenimenti lunghi anche otto o nove anni».

Un sistema che isola i richiedenti asilo, tagliandoli fuori dalla società. E che rende i richiedenti asilo doppiamente vittime. «Per quindici anni i nostri politici hanno usato i richiedenti asilo come capro espiatorio. Non votano, non importa come li tratti. Ed è facile creare l’immagine dei richiedenti asilo che vengono qui a chiedere soldi e sfruttare il welfare locale», riflette Morten.
In un sistema di questo tipo (in cui lo stato provvede al 100% dei bisogni dei rifugiati) si crea un perverso meccanismo di dipendenza, che si protrae per anni. «Restare a lungo in attesa, senza nulla da fare e senza risposte provoca depressione – riflette Morten –. Inoltre, chi deve iniziare un percorso di integrazione sul territorio dopo aver ricevuto lo status di rifugiato deve fare il doppio della fatica per rimettersi in gioco».

Al Trampolinehouseset si cerca proprio di combattere questo stile di vita. Attraverso il lavoro e la cooperazione per il bene comune, i rifugiati possano riacquistare la propria dignità. Ciascuno mette le proprie competenze a disposizione degli altri: c’è chi aiuta in cucina, chi si occupa delle pulizie, chi tiene lezioni di inglese, danese o arabo. Uno scambio equo, che permette di uscire dalla logica dell’assistenza e della carità per ritrovare equilibri e dignità.

Ilaria Sesana

Nella foto: il famoso trampolino di Grado, che si trovava in mare aperto.