Scritture migranti

Noo Saro-Wiwa: io, mio padre, la Nigeria

Gabriella Grasso - 1 Dicembre 2013

2687338854 Sangue nigeriano e passaporto britannico, la 37enne Noo Saro-Wiwa porta un cognome importante. Suo padre Ken, scrittore e attivista politico, si oppose allo sfruttamento insostenibile delle risorse nigeriane da parte delle compagnie petrolifere straniere e all’esclusione degli autoctoni dai benefici economici derivanti dall’estrazione del petrolio. Denunciò il cinismo occidentale e la complicità del governo nigeriano. Fu arrestato e impiccato nel 1995. Nei dieci anni successivi Noo, che è cresciuta in Inghilterra e da ragazzina tornava ogni estate al villaggio paterno, si è recata in Nigeria due sole volte: nel 2000 per la cerimonia funebre ufficiale e nel 2005 per recuperare i resti del padre e dargli sepoltura.

Oggi scrive di viaggi. Qualche tempo fa stava per mettersi al lavoro sul suo primo libro, destinazione Sudafrica. Ma si è presto resa conto che, con il suo cognome e la sua storia, era un altro il Paese africano a cui avrebbe dovuto dedicare le proprie energie. Nonostante le difficoltà emotive del caso. «All’inizio ho pensato che avrei potuto viaggiare per la Nigeria e raccontarla senza occuparmi delle vicende della mia famiglia. Ma il mio agente mi ha detto che era impossibile: dovevo scrivere con il cuore. In effetti, forse era ridicolo immaginare di poter separare la mia identità di scrittrice da quella di figlia… E sono contenta di non averlo fatto», racconta a Corriere delle Migrazioni.

Così Noo si è messa a viaggiare. Per quattro mesi e mezzo ha percorso la Nigeria da Sud a Nord e alla fine ha scritto Looking for TranswonderlandTravels in Nigeria (Granta Books, 11 euro su amazon.it). Lo ha presentato in Italia al Festival di internazionale (http://www.internazionale.it/festival/) ma non esiste ancora un’edizione italiana. Un libro appassionante e istruttivo, scritto con grazia e una straordinaria assenza di giudizio. Un racconto della Nigeria di oggi tra modernità, tradizione, corruzione e bellezza. Con qualche pagina che, malgrado l’ammirevole oggettività giornalistica dell’autrice, suscita commozione: come quella in cui, ritrovandosi incapace di replicare all’attacco di una zia e un cugino in preda all’esaltazione religiosa (diffusissima nella Nigeria di oggi), Noo riflette: «Fino a ora avevo sempre pensato che mio padre fosse mille volte più coraggioso di me. Mi sono resa conto che lo era un milione di volte di più. Lui aveva affrontato un sistema politico e commerciale spietato che uccideva chiunque lo sfidasse; io ero sconvolta dagli inoffensivi rimproveri dei miei parenti religiosi».
6362969171_8ff58180ce_zLa sua doppia identità vien fuori già dalle prime pagine: lei è all’aeroporto e descrive con apparente distacco la confusione creata dai passeggeri nigeriani. Poi, però, comincia a parlare di loro usando la prima persona plurale…
«Quando appartieni alla diaspora hai un senso molto forte delle tue origini. I miei genitori hanno cresciuto me e i miei fratelli come nigeriani, e io non ho avuto il passaporto britannico fino ai 20 anni. Ci sono nigeriani, oggi, che mi dicono: “Sei cresciuta in Uk, allora sei inglese”. Ma non è così. Tutti i miei amici inglesi figli della diaspora usano il “noi” riferendosi ai libanesi o agli australiani, a seconda di quale sia il loro Paese di origine. Ma capisco che, per chi non vive questa realtà, può suonare strano. Io mi sono sempre sentita nigeriana, anche se ovviamente la mia identità è complessa».

Lei mette in evidenza come il Sud della Nigeria,  dov’è stata più attiva la presenza dei coloni britannici, sia più sviluppato del Nord. Questo pone una domanda sull’esistenza di aspetti positivi della colonizzazione.
«Gli inglesi si sono concentrati sul Sud perché lì c’è il petrolio. Con il colonialismo succede che un Paese come la Gran Bretagna costringe un altro Paese, come la Nigeria, ad adottare uno stile di vita occidentale, imponendo un sistema parlamentare e costruendo università, metropoli, infrastrutture moderne… Il colonialismo impone su di te queste cose, dicendoti “Devi essere come noi”. È chiaro che chi, in Nigeria, ha avuto la possibilità di adottare uno stile di vita occidentale ha beneficiato di molti vantaggi, ma questo non vuol dire che la colonizzazione sia una buona cosa. Spesso si pensa alla modernità come a un processo inevitabile, ma non è così: la modernità è stata imposta dall’Occidente, è stata una costrizione… E se una parte del Paese si è sviluppata più di un’altra, la responsabilità è del colonialismo che ha creato la divisione. Certo, senza gli inglesi oggi non avremmo molte infrastrutture, ma le cose non sono così semplici da giudicare».

 Com’è stato visitare la regione di suo padre, l’Ogoniland?
«Tornare al villaggio è stato un po’ triste, ormai non è rimasto quasi più nessuno: i nonni sono morti, molta gente è andata a lavorare in città. Ma ho comunque trovato una zia che mi ha accolto e ha cucinato per me! È stato interessante perché dopo aver viaggiato tanto per il Paese sentendo parlare lingue diverse, ho iniziato a diventare più consapevole della mia appartenenza agli Ogoni. In Inghilterra siamo tutti “nigeriani”. In Nigeria ho percepito il senso delle differenze tra le varie etnie. E trovarmi tra la mia gente, le uniche persone al mondo in grado di pronunciare il mio nome correttamente… mi ha fatto sentire a casa».
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Questo viaggio le è servito a comprendere meglio l’attività di suo padre?
«In realtà ha avuto a che fare più con la mia identità che con il lavoro di mio padre. Avevo 19 anni quando è morto ed è stato da quel momento in poi che io e i miei fratelli abbiamo iniziato a capirlo. Quando eravamo piccoli lui ci portava a vedere le campagne devastate della perdite di petrolio, ma all’epoca non ce ne importava niente. Quelle immagini, però, sono rimaste impresse nella nostra mente e, da adulti, ci hanno aiutato a mettere insieme i pezzi. No, la battaglia di mio padre è sempre stata con me: non avevo bisogno di tornare in Ogoniland per comprenderla».

Suo padre sosteneva che la letteratura non può essere fine a se stessa, ma ha il compito di cambiare la vita delle persone. Lei perché ha scritto Looking for Transwonderland?
«Credo di differire da mio padre sotto questo punto di vista. Lui e altri scrittori come Chinua Achebe e Wole Soyinka scrivevano durante gli anni della dittatura militare, quindi per loro politica e letteratura coincidevano necessariamente. Io scrivo per il piacere di scrivere. Anche se mi rendo conto che la politica c’entra sempre: viaggiando per la Nigeria è stato impossibile tenerla fuori, anche se avrei voluto. In questo libro cerco di indagare sulle radici sociali e storiche della corruzione: vorrei che le persone capissero perché una società è in un certo modo. Non ho come obiettivo quello di smontare gli stereotipi sulla Nigeria, perché alcuni sono veri: la corruzione dilaga, le infrastrutture non funzionano… Voglio dare un quadro reale del Paese, presentandone aspetti positivi e negativi. E quando si parla di quelli negativi credo che sia importante spiegare da dove hanno origine. Per esempio, ci sono lavoratori in Nigeria che arrivano al lavoro in ritardo e sembra non lo prendano sul serio: poi indaghi e scopri che non vengono pagati da 5 mesi! Questo per me è un dato importante. Certo, ciò che vedi per le strade ti può irritare, ma devi cercare di dare una spiegazione. A questo serve la letteratura di viaggio: a fornire un contesto per comprendere la realtà».

Come giudica il modo in cui i media europei parlano dell’Africa?
«Sui media tradizionali prendono il sopravvento le notizie negative e quelle legate al terrorismo. Ma ora, con il web, la possibilità di conoscere davvero cosa succede nel Continente è alla portata di tutti. Bisogna solo aver voglia di cercarle, ma le notizie sono lì. A me, per esempio, piace in particolare un sito che si chiama allafrica.com»

Lo scrittore Teju Cole sta lavorando a un libro su Lagos, lei ha appena pubblicato questo: perché tanto interesse intorno alla Nigeria?
«Un africano su sei è nigeriano e il Paese è uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio: per questo il mondo l’ha sempre tenuto d’occhio. Negli anni abbiamo prodotto grandi scrittori e dopo il ritorno alla democrazia, negli anni Novanta, l’economia ha iniziato a ripartire. Insomma, è come un gigante che si sta svegliando. E poi Lagos, con i suoi 8 milioni di abitanti, è un posto molto eccitante!».

Nel 1978, quando lei vi è arrivata, la Gran Bretagna non era ancora il paese multiculturale di oggi. Come si viveva?
«In realtà c’era già molta immigrazione, solo che il multiculturalismo non era accettato e le persone ti chiedevano sempre: “Di dove sei?”. Quando noi vedevamo un nero alla tv correvamo strillando per casa avvertendo tutti: era un evento! Ora è diverso. A metà degli anni Novanta c’è stata un’ondata di migrazione proveniente soprattutto dall’Europa dell’Est e, per preparare i cittadini, il governo laburista dell’epoca ha dovuto promuovere il multiculturalismo: i media ne parlavano continuamente. Nel frattempo c’è stata un’intera generazione di inglesi cresciuti con persone come me, figli di immigrati, e anche questo ha fatto la differenza».

Nel suo ultimo libro NW la scrittrice Zadie Smith descrive una Londra multiculturale caratterizzata da un’atmosfera di rassegnazione, quasi di sconfitta. Lei cosa ne pensa?
«Non ho letto il libro, ma mi pare che la situazione stia gradualmente migliorando. Certo, un’atmosfera mesta c’è ancora ed è normale: la mia generazione sognava di vivere meglio dei genitori, invece non possiamo permetterci nemmeno un monolocale a Londra. Questo senso di delusione è più forte tra gli immigrati perché hanno affrontato la diaspora e molti sacrifici per garantire ai figli un futuro migliore e il fatto che, invece, questi non possano comprarsi una casa e abbiano problemi economici è come uno shock per loro: non era ciò che si aspettavano».

Gabriella Grasso