Bollywood-Firenze

Shabana Azmi, l’arte e l’impegno

Francesca Materozzi - 1 Dicembre 2013

shabana-azmi11La vedo arrivare tra la gente ed è semplicemente bellissima. Dal modo in cui guarda, dalle maniera con cui tratta le persone, tutto rivela il suo essere una diva, di quelle vere. Si tratta infatti di una delle più grandi star di Bollywood. Lei è Shabana Azmi. Attrice, con alle spalle una lunga carriera e decine di film girati, alcuni dei quali hanno oltrepassato le frontiere e sono diventati celebri in gran parte del mondo. La sera prima dell’intervista ho avuto il piacere di vederla in uno dei suoi film più famosi, Fire di Deepa Mehta, uscito nel 1996. A suo tempo fece scalpore e fu vietato in Pakistan e Malesia: parlava di omosessualità femminile in una famiglia tradizionale indiana. Questo è il cinema di Shabana Azmi: bello, talvolta provocatorio, sempre o quasi impegnato.

Ma niente è casuale. Shabana Azmi nasce in una famiglia di artisti (poeta il padre, attrice la madre) militanti del partito comunista indiano, fondatori e appartenenti di associazioni che si occupano di povertà, malattie (Aids che è molto diffuso in India) e lotte per l’emancipazione femminile. Ha seguito le orme di famiglia. Sposata dal 1984 con il poeta e sceneggiatore Javed Akhtar, è, oltre che attrice, una figura molto impegnata a livello politico e sociale. È a capo di Action Aid India ed è stata parlamentare dal 1997 al 2003.
La incontriamo al cinema Odeon di Firenze dove ogni anno viene rappresentato il festival River to River dedicato al cinema indiano. Rompo il ghiaccio con la più classica delle domande.

Come mai si interessa di politica e di sociale?
«Appartengo a una famiglia in cui si crede fermamente che l’arte debba essere utilizzata anche come strumento per il cambiamento sociale. Mio padre era un poeta e scrittore e mia madre un’attrice di teatro. Praticavano quello che predicavano con la loro arte. Mio padre era membro del partito comunista indiano. Sono vissuta fino a nove anni in una comune del partito comunista. La lotta per i diritti era la nostra quotidianità».

Lei ha scelto di impegnarsi negli slums. Cosa avete fatto concretamente in questi quartieri?
«Ci lavoro dal 1986 e da allora abbiamo costruito circa 50.000 case per gli abitanti di quei quartieri. È stato il più grande progetto di riabilitazione che abbiamo fatto. C’è stato un accordo tra l’amministrazione locale del Maharashtra, un costruttore locale e l’organizzazione di cui facevo parte con mio padre che si chiama Diritto ad avere un tetto. Le case vengono date dietro al pagamento di una piccola rata iniziale. Negli anni settanta la città è stata interessata da un boom edilizio, anche grazie all’arrivo degli immigrati dalle campagne, e nel 1986 Bombay ha superato Calcutta come la città più popolosa dell’India».

Sembra di capire che c’è una grande partecipazione popolare alle questioni sociali in India. È così?
«L’india si sta aprendo alla globalizzazione e alle sue ventilate ricchezze. Per questo è giusto che ci siano gruppi di cittadini organizzati che provino ad avere un ruolo in quello che sta succedendo e che non sia tutto demandato al controllo statale o delle multinazionali. In qualsiasi democrazia è importante che siano i cittadini a decidere l’agenda politica in modo da non essere solo dei ricettori di programmi scelti dai politici».

Ma questa partecipazione come può avvenire e che peso può avere, in concreto, in un paese così grande che vive una grande disparità tra le classi sociali?
«Siamo pieni di contraddizioni è vero. In India è come se si vivesse in diversi secoli contemporaneamente. Per cui mentre ci sono spinte per andare verso questa direzione contemporaneamente ci sono delle spinte che sono diametralmente opposte. Per voi che vi occupate di immigrazione, per esempio, è importante sapere che il 60% della popolazione di Bombay vive negli slum, e che queste persone sono immigrati interni che provengono dai villaggi, dalla campagna».

India e Cina sono le due grandi potenze emergenti. In Cina c’è già un discreto flusso migratorio di persone provenienti da altri paesi. E l’India? È già diventata terra di migrazioni economiche?
«Abbiamo molte persone del Bangladesh, ma per il momento non c’è un grosso flusso migratorio da altri paesi anche se è ancora massiccia l’immigrazione interna dalla campagna alla città, e le migrazioni da Stato a Stato. Contro questi flussi migratori ci sono dei gruppi politici di estrema destra che non solo non accettano l’immigrazione straniera ma addirittura dicono che non dovrebbe essere permessa l’immigrazione da uno Stato interno all’altro. Il lavoro che fa la mia associazione negli slum è legato al fatto che chi migra dai villaggi magari trova il lavoro ma non riesce ad accedere a un’abitazione dignitosa».

Attualmente nel suo paese ci sono delle leader di partito donna. È la dimostrazione di un’effettiva apertura e di fiducia da parte degli uomini e della società in genere?
«In realtà ci sono solo il 10 % di donne in Parlamento. Ci stiamo battendo per una proposta di legge chiamata Women Riservation Bill, che permetterebbe di avere il 33% di rappresentanti politici donne. Gli uomini, anche del mio partito, non ti dicono di essere contro ma fanno resistenza e continuano a rimandarla.

Di solito l’occidente è molto critico rispetto al rapporto tra i generi nelle altre culture. Lei cosa ne pensa?
«Questo in realtà spiega molto di più del vostro mondo che non del nostro o degli altri mondi. Ritenete di sapere cosa sia bene e che cosa sia male. Però, dato che il mondo sta diventando sempre più piccolo, diventa importante che tutte le culture vengano rispettate. È essenziale che cerchiamo di vederle nella loro complessità invece che, semplicemente, selezionare dei dettagli e attraverso di quelli farsi un giudizio, o peggio un pregiudizio, sul tutto».

Francesca Materozzi