Diritti delle donne

Superare l’approccio top/down

Noemi De Simone - 1 Dicembre 2013

NUDO_big-220x279Aidos si occupa di violenza di genere nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Cristina Angelini, psicoterapeuta, da 12 anni segue la formazione dello staff locale. «Mi piace cominciare con dei training, facendo fare libere associazioni con le donne della comunità o con gli stessi operatori socio-sanitari locali. Questi ultimi imparano a somministrare questo test alla comunità di appartenenza».

Perché dei training?
«In questi esercizi si parla in maniera libera e si invitano le ‘attrici’ del training a fare libere associazioni. Se io dico “Donna”, si cominciano a delineare insieme i tratti associati culturalmente a questo concetto: gentile, delicata, bella, “shy” ovvero timida. E così per l’Uomo: forte, grosso, muscoloso, violento, iracondo, e così via. E si comincia a lavorare sugli stereotipi di genere. Si scopre inoltre che questi hanno una matrice comune nei diversi paesi. L’aggettivo shy ricorre spesso. Essere timida, dunque riservata, è un valore per molte. Soprattutto in Medio Oriente. Ma d’altronde, la ragazza che ha una sessualità libera – che non è shy – dove è vista bene?»

I progetti di Aidos sono “progetti sanitari”. Perché? Cosa c’entra con la violenza?
Non è scontato che una donna vada a denunciare un abuso. Spesso l’abuso non è nemmeno percepito come tale. In Tanzania, le donne che partecipavano ai training sulle violenze non parlavano mai delle mutilazioni. Ci sono dei paesi in cui andare dallo psicoterapeuta non è scontato o è tabù. E allora approcci le donne quando vanno dal ginecologo o nei centri sanitari. I progetti di salute sessuale e riproduttiva includono professioni diverse: la ginecologa, la sessuologa, l’infermeria, l’ostetrica, ma anche l’assistente sociale, l’avvocata e la psicologa appunto. L’avvocata di solito è part-time e fa informazione sui diritti e doveri della persone. È inoltre importante parlare con gli operatori sanitari. Spesso non fanno domande, anche quando una donna torna al pronto soccorso svariate volte. Rimane l’idea che la violenza in genere sia un fatto privato e che non “stia bene” fare domande. Alle volte invece gli operatori non hanno gli strumenti».

Quando si parla di abuso, denuncia, stereotipi di genere, le distanze tra “noi e loro” sembrano accorciarsi.
«Gli stereotipi di genere variano nel tempo e nello spazio. Ci sono però dei ‘portati comuni’. Alcune pratiche tradizionali in paesi distanti geograficamente, culturalmente ed economicamente dal nostro, ci fanno inorridire. Ma non tantissimo tempo fa in Italia vigevano il delitto d’onore e il matrimonio riparatore dopo lo stupro. La matrice è comune, gli stereotipi sono gli stessi».

C’è chi paragona le mgf alla chirurgia estetica intima. Cosa ne pensa?
«Mi viene in mente che nei training che conduco con donne di vari paesi, l’associazione ragazza/bella salta sempre fuori. La ragazza è bella. Per una ragazza adolescente non essere bella è un problema. E se non lo sei è quasi scontato sottoporti a pratiche cruente o invasive. La plastica ai genitali è quindi l’ultima delle frontiere».

Spesso le campagne sulle mgf sono state accusate di avere un approccio “top/down”, ovvero “dall’alto in basso”. Gli europei portano i loro valori e li impongono agli altri. Lei che ne pensa?
«Alcuni progetti non hanno successo perché sono affidati al caso. Per fare un lavoro efficace, devi elaborare una strategia in cui cerchi di capire cosa è importante in quel paese. Dobbiamo entrare in quel luogo lì e capire i valori che li reggono. Non puoi violare i valori locali».

Ci sarà però un limite invalicabile, un punto di riferimento su cui operare.
Esiste una linea di demarcazione: quella dei diritti umani. Le campagne di intervento europee sono non a caso definite human rights based, basate sui Diritti Umani fondamentali. Il diritto all’integrità corporea, ad esempio. Ma quello che è scontato qui non lo è lì. Per certi versi, è ‘inutile’ esportare progetti sulla scolarizzazione delle bambine o sulla salute delle donne. In alcuni paesi, le bambine sono un peso. In Nepal c’è un proverbio che dice: “le figlie sono un bene su cui non investire”. Bisogna usare un approccio che io definisco “veicolare”. Se in alcuni paesi la salute delle donne non è un valore o non è “interessante”, puoi ad esempio parlare della mortalità infantile connessa all’infibulazione. La salute del nascituro è un argomento che ‘funziona’. In Medio Oriente lavoravo con delle operatrici religiose. Abbiamo coinvolto gli imam e riuscivamo a coinvolgerli trovando il “versetto giusto al momento giusto”. Molto impattante è stata la diffusione della pornografia: ha scardinato i canoni estetici».

Avete formalizzato le tecniche di questo approccio?
«Insieme all’Aidos abbiamo scritto delle linee guida. La Banca Mondiale ha inoltre finanziato la stesura di un manuale per lavorare in Medio Oriente. Il progetto in Giordania ha dato la risposta migliore e il centro sanitario è diventato un centro modello per tutta l’area mediorientale. Lì collaboravamo anche con gli uomini. Quando siamo andati in Siria, abbiamo portato con noi degli operatori che si erano formati sul posto. Siamo riusciti a terminare il progetto per il rotto della cuffia, perché dopo sono cominciati i conflitti. Adesso c’è un manuale anche sulla realtà siriana».

Noemi De Simone