Italia, Bangladesh

Così lontani, così vicini

Francesco Della Puppa - 9 Dicembre 2013

-3Prato come Dhaka, l’incendio del Macrolotto riproduce in piccolo la tragedia del Rana Plaza, è stato scritto. Noi crediamo che sia proprio così. E che i modelli di produzione e di consumo c’entrino, eccome.

Il 24 aprile 2013, a Dhaka in Bangladesh, crolla il Rana Plaza, un edificio di nove piani contenente diversi laboratori tessili. Il bilancio finale è di quasi 1.200 vittime, tutti operai, per lo più donne.
È il più grande disastro industriale della storia dell’umanità.
In quel palazzo si lavorava per famosi marchi europei, molti italiani: in Bangladesh, infatti, hanno delocalizzato parte della loro produzione aziende come Walmart, H&M, Zara, Lee, ma anche Benetton, Tezenis, Diesel, Coin, Diadora e molte altre.
L’80% delle esportazioni di questo piccolo, ma popolatissimo Paese è costituito dall’industria degli abiti preconfezionati che nel 2012 avrebbe prodotto oltre 20 miliardi di dollari e oggi occuperebbe oltre 4 milioni di lavoratori.
In meno di un decennio il Bangladesh è diventato, così, il terzo esportatore di abbigliamento al mondo (dopo Cina e India) e il secondo nell’Unione Europea, verso cui esporta l’85% dei suoi prodotti. Eppure, quando la si interroga, la delegazione dell’Ue relativizza le cattive condizioni di lavoro.
Tale crescita, infatti, è avvenuta a discapito della sicurezza, dei salari e delle condizioni di lavoro. Negli ultimi dieci anni, oltre alla strage del Rana Plaza, sono morti oltre un migliaio di lavoratori in incidenti avvenuti con cadenza quasi mensile. Uno stillicidio di tragedie analoghe che sta continuando, lontano dai riflettori della stampa occidentale, e il cui copione si ripete uguale o con minime variazioni.
Il Rana Plaza, ad esempio, era stato costruito su un acquitrino interrato senza le dovute precauzioni, ma le autorizzazioni erano state firmate ugualmente su forti pressioni del Bgmea (Bangladesh Garments Manifacturers and Exporters Association), l’associazione che riunisce le aziende bangladesi produttrici di abiti in subappalto. Doveva essere composto da due o tre piani, ma – sempre su pressione degli industriali – ne sono stati realizzati nove. Conteneva pesanti macchinari e generatori di terza mano – spesso acquistati ai Paesi occidentali – che, nei piani alti, procuravano compromettenti vibrazioni.
I giorni precedenti a quel 24 aprile, erano state individuate delle crepe, ma per onorare gli ordini dei marchi europei, i proprietari hanno intimato gli operai di tornare comunque al lavoro. Le richieste delle aziende occidentali, infatti, sono sempre più pressanti, richiedendo un numero di capi sempre maggiore in un tempo sempre più compresso, sotto la minaccia di delocalizzare la produzione in altri Paesi asiatici considerati più “competitivi”.
Ma oltre a concentrarsi sulla struttura delle cosidette garments factory è necessario approfondire le condizioni lavorative che hanno luogo nel loro interno.
L’85% della forza-lavoro è composta da giovani donne, originarie delle aree rurali, impegnate 7 giorni su 7 in turni lavorativi di 13 ore al giorno, ma che frequentemente possono dilatarsi fino a costringerle a rimanere chine sulle macchine 19 ore di fila o, comunque, a sostenere ritmi di 80 ore settimanali. Gli straordinari – “ovviamente” spesso non retribuiti – sono raramente frutto di “libera scelta”.
Oltre a non avere il permesso di comunicare tra loro e a essere perquisite all’uscita, le lavoratrici vengono spesso chiuse a chiave dentro alle fabbriche – senza via di scampo in caso di crollo o incendio – al fine di intensificare la produzione e soddisfare le esigenze del just-in-time.
La libertà sindacale è inesistente e chi ha contatti con qualsiasi organizzazione dei lavoratori viene licenziata.
Per concludere questo affresco che ricorda i romanzi di Charles Dickens, vanno segnalati i frequenti stupri da parte del personale responsabile e del versamento di una quota mensile del salario affinché i supervisori non molestino le operaie. Già, il salario…
A scanso di equivoci, va sottolineato che la fabbricazione di una polo in cotone in Europa costa circa 15 euro, in Bangladesh meno di un terzo; che non sono il materiale (5 euro in occidente e 3 in Bangladesh) o il processo di lavaggio (75 centesimi “qua” e 25 “là”) a fare la differenza, ma il costo della forza-lavoro: un’ora di lavoro di un operaio in Europa (8 euro) può arrivare a equivalere fino a 40 ore di una lavoratrice di una garments factory. Ecco, dunque, cosa attira i marchi europei nella cintura industriale di Dhaka.
Gli stipendi mensili, infatti, variano dai 13 ai 30 euro, pochi centesimi di euro l’ora ne fanno la manodopera meno pagata del pianeta. A titolo di paragone, in Vietnam, gli operai guadagnano circa 75 euro mensili, in India, 112.
L’Asia Floor Wage, un’organizzazione sindacale interasiatica, valuta in 72 euro mensili il minimo vitale per una persona senza carichi familiari in Bangladesh. Non è raro, dunque, che moltissime coppie, i cui componenti sono entrambi occupati nell’industria del pret-à-porter, siano costrette ad abitare in baracche di lamiera e cartone nei bastee – gli slum delle metropoli del subcontinente – di Dhaka e Gazipur.
Al contempo, però, il boom economico del Paese – trainato dalle localizzazioni dell’industria tessile europea, dagli anni ‘90 in poi – ha contribuito a una significativa trasformazione delle relazioni tra i generi nella società bangladese.
Le prime donne che hanno colto questa opportunità furono le divorziate e le ripudiate. Solitamente ai margini della comunità delle aree rurali, sono emigrate a Dhaka con i loro bambini in braccio, in cerca di un reddito e in fuga da miseria e precarietà.
Pian piano, altre hanno seguito il loro esempio. Ragazze che, con o senza l’approvazione della famiglia, sognano un futuro migliore, cercano di offrire una migliore istruzione ai figli, fuggono ad un matrimonio combinato non gradito o provano, in questo modo, a racimolare il denaro per la propria dote. Non temono più il giudizio gli ambienti più “tradizionalisti” – che vedono in questo esodo al femminile una messa in discussione per le strutture patriarcali – e, spesso, godono di un parziale sostegno dell’opinione pubblica che, tanto nelle aree urbane quanto nei villaggi rurali, sta progressivamente cambiando segno a loro favore.
Nonostante lo sfruttamento selvaggio della manodopera, dunque, la dirompente diffusione delle garments factory ha compartecipato alla ristrutturazione della società attraverso la parziale emancipazione delle donne più povere.
Un altro segnale del cambiamento è rintracciabile nell’adesione di un numero sempre maggiore di donne ai frequenti scioperi e alle manifestazioni – ancora prevalentemente declinate al maschile – degli operai tessili che non subiscono passivamente le pessime condizioni lavorative imposte dall’industria europea.
Le manifestazioni mobilitano decine di migliaia di persone che, sospendendo la produzione, irrompono con determinazione nelle strade, attaccando le fabbriche, spesso date alle fiamme. Il governo risponde con arresti e l’invio dell’esercito per proteggere le fabbriche e le aree bloccate della capitale. I sindacalisti vengono sequestrati, torturati – talvolta uccisi – e abbandonati su strade nelle periferie di Dhaka. I lavoratori e le lavoratrici reclamano il rispetto dei loro diritti: un giorno di riposo settimanale, una giusta remunerazione delle ore lavorate e di quelle straordinarie, la libertà di organizzazione sindacale, ma soprattutto maggiori garanzie sulla sicurezza e l’innalzamento del minimo salariale a circa 75 euro.
Se in un primo tempo, il primo ministro, Sheikh Hasina, aveva espresso una timida solidarietà di facciata ai manifestanti e la sua indignazione per i bassi stipendi e le pessime condizioni di sicurezza, in un secondo momento, di fronte alla loro insoddisfazione per un aumento di circa 20 euro ritenuto insufficente e al conseguente proseguimento degli scioperi, non ha esitato a far intervenire l’esercito, accogliendo le richieste di intervento del Bgmea.
Il governo teme che gli importatori europei spostino la produzione altrove. Gli ordini, infatti, non sono concentrati in un unico Paese, ma possono essere ri-delocalizzati in tempo reale. In questo modo le grandi marche non dipendono dagli eventuali rischi di produzione in uno specifico Paese. Gli industriali, infatti, ripetono che non possono soddisfare le richieste salariali, perchè il Bangladesh non riuscirebbe a essere competitivo nei confronti di altri Paesi a causa dei costi di produzione più alti dovuti alle difficoltà di approvvigionamento energetico, alle carenze delle infrastrutture e dei trasporti. Vulnerabilità strutturali scaricate, così, sui lavoratori.
Non va dimenticato, però, che in seguito agli aggiustamenti economici e alle liberalizzazioni dettate dagli organismi finanziari internazionali, le risorse e le infrastrutture del Bangladesh sono solidamente in mano a colossi occidentali. Ciò comporta un impoverimento del Paese che costringe la classe lavoratrice locale a piegarsi a condizioni di sfruttamento imposte, ancora una volta, da aziende occidentali.
È facile intravvedere una relazione di tipo coloniale tra il vecchio continente e il giovane Paese asiatico e, soprattutto, le conseguenze di un sistema di produzione economica e organizzazione sociale che accomuna le esistenze di sempre più persone dal Bangladesh all’Europa, ma che non è più sostenibile né “qua”, né “là”.
La tragedia del Rana Plaza e le altre stragi di lavoratori che più o meno silenziosamente hanno luogo tra un “primo mondo” e un “terzo mondo” sempre più vicini, infatti, rientrano inevitabilmente nella logica del mercato: conseguenze collaterali la cui cessazione non può che avvenire attraverso una radicale messa in discussione dell’ordine economico che le produce.

Francesco Della Puppa