Sport e integrazione

Cricket all’italiana

Francesca De Luca - 9 Dicembre 2013

Nazionale italiana cricketQuesto sport nel nostro Paese è portato avanti da atleti provenienti da India e dintorni. Non hanno la cittadinanza ma giocano (egregiamente) in Nazionale. E lo Ius sanguinis, in questo caso, che fine ha fatto? Nella foto: la nazionale italiana di cricket, che si è aggiudicata il titolo europeo lo scorso luglio.

A tenere alta la bandiera del cricket italiano nel mondo sono in molti casi atleti che non hanno la cittadinanza italiana, ma possono occupare una posizione in nazionale grazie alle regole speciali che vigono in questo sport: regole inglesi, di un Paese cioè in cui vige lo Ius soli e che ammette che per rappresentare una nazione sia sufficiente risiedervi. In concreto: per giocare nella Federazione Italiana bisogna essere residenti da almeno quattro anni, per la categoria giovani, e da sette per gli adulti. La Uisp, Unione Italiana Sport Per tutti, ha un regolamento ancora più includente.
A giocare a cricket, in Italia e per l’Italia, sono in prevalenza indiani, pakistani, bangladesi. Nel subcontinente indiano, infatti, questo sport ha raggiunto la massima popolarità, ed è partecipatissimo e amato. Questo ha prodotto un curioso e interessante rovesciamento di prospettive: gli autoctoni, nel settore cricket, risultano in un certo senso “forestieri”.
Sul cricket all’italiana e le sue implicazioni sociologiche hanno scritto un libro Ilario Lombardo, Giacomo Fasola e Francesco Moscatelli. Il volume, edito da add editore, si intitola Italian cricket club. Parlando con loro e con Matteo Miavaldi, che segue il subcontinente indiano per l’agenzia China Files, abbiamo cercato di capire meglio quale sia il ruolo del cricket nei paesi di origine di questi atelti.

«Il cricket è effettivamente una mania pan indiana», dice Miavaldi, che – per inciso – vive stabilmente in India. «Credo sia uno dei pochissimi collanti che tengono insieme tutto il paese. Lo stesso vale per il Pakistan, il Bangladesh e lo Sri Lanka». E rappresenta un elemento di comunanza trasversale rispetto alle differenze religiose. Ma avvalersi di uno sport “coloniale” per superare le differenze religiose – che, come è storicamente dimostrato, sono state esaperate ad hoc proprio dal governo coloniale – non è sintomatico di una sorta di “sudditanza culturale”? «L’India indipendente non ha negato o rigettato l’esperienza coloniale, ma l’ha introiettata mantenendone molteplici tratti distintivi (lingua, legge, apparato burocratico e sport)», prosegue Miavaldi. «Per assurdo, la colonizzazione inglese è una delle pochissime esperienze condivise da tutto il territorio attualmente indiano, forse l’unica».
Anche secondo Fasola «il cricket nel Subcontinente ha trovato l’humus ideale per attecchire e diffondersi. È entrato a far parte di quella cultura, ne è stato plasmato e l’ha plasmata. Basti pensare alla durata delle partite: in qualche altro luogo al mondo si poteva affermare uno sport le cui partite durano giorni, se non in India? L’affermazione del cricket nel Subcontiente non ci pare, insomma, la prova di una “sudditanza culturale”. Semmai del fatto che ci sono cose che vanno al di là delle diverse culture, e che possono diventare un ponte per superare le differenze. Anche quelle religiose, come avviene nei parchi italiani dove musulmani, indù e sikh giocano fianco a fianco».
Per quanto riguarda l’inclusione di potenziali giocatori italiani, procede a rilento e con fatica. «Il campionato federale prevede quote fisse, ma spesso gli “italiani” che disputano i campionati sono singalesi o pakistani che vivono da anni in Italia (dopo alcuni anni di residenza continuativa vengono considerati “assimilati”)» specifica Lombardo. «Ci sono squadre, come il Genoa o il Pianoro, dove gli italiani sono più numerosi. Ma ce ne sono anche molte altre praticamente monoetniche. La politica della Federazione, che negli ultimi anni ha investito molto sugli oriundi per avere una Nazionale più forte, non ha aiutato la crescita dei giovani italiani».
Il cricket, in Italia, è praticato prevalentemente al Nord. Molte delle esperienze raccontate nel libro, infatti, si svolgono sopra Roma. «La Uisp», spiega Fasola, «sta spingendo molto per organizzare tornei e campionati anche a sud, come testimoniano i recenti successi del Napoli. Ma la diffusione è ancora poco capillare. Le potenzialità comunque ci sono, basti pensare che a Palermo c’è una nutrita comunità srilankese».
Intanto anche il Vaticano, qualche giorno fa, ha istituito la propria squadra di cricket raccogliendo le adesioni di oltre trecento preti. Ovviamente, in prevalenza, indiani.

Francesca De Luca