Dhaka-Prato

Il cattivo esempio

Francesco della Puppa - 9 Dicembre 2013

-3La “cinesizzazione” del lavoro non è un’invenzione cinese, ma l’espressione dei modelli produttivi post-fordisti. Il “sistema” Benetton (ma potevamo anche prenderne altri) per capire meglio cosa abbia reso possibile la strage di Prato e cosa la unisce a quella del Rana Plaza e alle tante altre che l’hanno preceduta.

La Benetton è stata uno degli ultimi clienti della New Wave Style, una delle aziende che aveva sede al sesto e settimo piano del Rana Plaza. Proprio pochi giorni prima del disastro, aveva ordinato e ricevuto circa 185.000 camice di cotone a gennaio ed era in attesa di ricevere una commessa di 40.000 pezzi destinati al mercato russo, italiano e statunitense. L’azienda trevigiana ha dapprima negato il legame con i laboratori del Rana Plaza, ma poi ha dovuto ammettere il proprio coinvolgimento.
I suoi ordini presso la New Wave Style risalgono a settembre 2012, ma da oltre cinque anni era impegnata nello spostamento di parte della sua produzione dall’India al Bangladesh, per abbattere ulteriormente i costi.
Il gruppo si appoggia su circa 700 fornitori in tutto il mondo, in Paesi come Pakistan, India, Cina, Vietnam, Sri Lanka, Corea, Filippine e molti altri. In Bangladesh realizza oltre il 4% dell’intera produzione. Oggi costituisce una delle più importanti multinazionali del tessile-abbigliamento, anche se i sui interessi spaziano in diversi settori.
Capire quale sia stata la chiave del suo successo e come, da Ponzano, sia arrivata al Rana Plaza (e in molti altri angoli del cosidetto Terzo mondo), può aiutarci a cogliere il filo rosso che lega tragedie apparentemente indipendenti (come quella di Prato e quella del Rana Plaza) e la filiera delle responsabilità.
Per riuscirci dobbiamo fare un passo indietro: anni ’70, l’Italia e vari altri Paesi sono in crisi da sovrapproduzione: l’impossibilità di consumare tutte le merci prodotte ha comportato un sensibile calo dei profitti. In risposta – come spiega Filippo Perazza nel suo articolo Ad esempio, la Benetton, e principale fonte per questo mio intervento –  emergono nuovi modelli di grande industria alternativi al “classico” modello fordista, inadeguato ad affrontare la crisi. Il modello fordista non era, infatti, in grado di abbassare le quote di produzione di fronte ad un mercato che andava saturandosi, né di adattarle in tempi brevi attraverso riconversioni. Non era in grado di delocalizzare per abbassare il costo del lavoro e non riusciva a imporre un aumento della flessibilità, per l’opposizione di un sindacato forte e dall’unione tra lavoratori quotidianamente fianco a fianco nella fabbrica di grandi dimensioni.
Si impone, così, un nuovo modello di organizzazione del lavoro che risponde alle nuove esigenze capitalistiche. In Giappone, per esempio, si afferma un sistema innovativo che ha fatto le fortune della Toyota Motor Company. In Italia nasce il sistema “a rete” di Benetton, che con il toyotismo ha molte similitudini.
Nel “modello Benetton”, come nel toyotismo, il processo di produzione non è più indipendente dalla domanda, ma si mette in moto in tempo reale a seconda delle richieste, eliminando – o riducendo al massimo – i costi dei magazzini e dello stoccaggio.
La maggiore novità riguarda, però, la flessibilità del lavoro e l’assenza di resistenze sindacali, assicurate attraverso l’efficace logica del divide et impera. Facendo svolgere la produzione a piccole imprese contoterziste, opportunamente messe in concorrenza l’una con l’altra, diventa possibile sfruttare la rivalità tra i laboratori e ottenere spostamenti, aumenti, diminuzioni della produzione senza trovare ostacoli.
L’impiego di manodopera prevalentemente femminile, inoltre, gioca un ruolo essenziale per il successo dell’azienda. La crisi degli anni ‘70 ebbe forti ripercussioni per le famiglie operaie italiane: la minaccia di licenziamenti e il peggioramento delle condizioni salariali non rendevano più sufficiente un solo stipendio per nucleo. È così che molte donne hanno fatto ingresso nel mercato del lavoro e, essendo delegata pressoché esclusivamente a loro la cura dei figli e della casa, spesso optavano per lavori a domicilio, attività di cui la Benetton si è giovata non poco. Questo garantiva un risparmio sui costi di gestione e sui salari, totalmente a discrezione del committente.
L’azienda e i laboratori del suo indotto riuscivano a imporre, in questo modo, qualsiasi condizione di lavoro senza che le operaie potessero efficacemente opporsi.
Un ulteriore aspetto su cui è utile soffermarsi è quello relativo al ricorso alla subfornitura. Le imprese contoterziste, facenti capo alla Benetton sono di piccole o, al massimo, medie dimensioni. Formalmente indipendenti, ma vincolate alla Benetton poiché quest’ultima esige l’esclusiva della produzione o, comunque, una quota mai inferiore all’80%.
Ad ogni impresa di subappalto viene affidata una specifica fase della produzione. Alcuni laboratori si occupano della stiratura, altri dell’assemblaggio, altri ancora dell’imballaggio e così via. Così facendo, si rinforza la dipendenza dei laboratori, poiché li pone nella condizione di non essere in grado di accedere direttamente alla commercializzazione.
I laboratori in subappalto, dunque, sono assolutamente subalterni rispetto al committente e i proprietari dei vari laboratori non hanno più autonomia del caporeparto di un’azienda “tradizionale”, salvo che per le facoltà di assumere e licenziare o – e questo è un passaggio fondamentale – di decentrare ulteriormente.
È la Benetton che fornisce i quantitativi di materie prime o semilavorati, in quantità strettamente necessaria, per lavorazione decentrata; è la Benetton che, ponendo tra loro in concorrenza i terzisti, si pone di fatto nella condizione di stabilire i prezzi; è ancora la Benetton che stabilisce i tempi necessari all’evasione delle commesse.
L’azienda tende inoltre a chiedere tempi di consegna sempre più ristretti quando si rende conto che i subfornitori riescono a rispettare i termini. Per questa ragione i laboratori in subappalto sono costretti molto spesso a far svolgere, a loro volta, parte della lavorazione ad altri più piccoli, fino ricorrere a laboratori caratterizzati da condizioni di sicurezza assolutamente inadeguate e ritmi lavorativi paraschiavili, come i laboratori tessili tragicamente alla ribalta delle cronache più recenti, a Dhaka e a Prato – dove gli operai e le operaie venivano chiusi a chiave all’interno del luogo di lavoro.
Questo secondo livello di subappalto – almeno formalmente – non avrebbe più alcun legame diretto con la Benetton; l’azienda, quindi, non sarebbe responsabile delle condizioni lavorative e di sicurezza che prenderebbero forma in questa seconda fascia di subfornitura, ma è comunque essa a beneficiarne e raccoglierne i profitti.
Immaginiamo, ora, che gli anelli del subappalto non si limitino a due, ma che formino una catena al ribasso che da Ponzano Veneto arriva fino a Savar, il quartiere a Nord-Ovest di Dhaka dove si è sgretolato il Rana Plaza…

Francesco della Puppa