Bangladesh

Una nazione all’estero

Francesco Della Puppa - 9 Dicembre 2013

Ciò che è successo il 24 aprile nel quartiere di Savar, a Dhaka, ci riguarda. Per molte ragioni “dirette” (le nostre aziende delocalizzano lì, gli abiti prodotti in Bangladesh sono quelli che indossiamo…)  e perché quella bangladese è una delle popolazioni immigrate più presenti in Italia.

I movimenti migratori dall’area dell’odierno Bangladesh verso l’Europa cominciano già nel XVII secolo, momento in cui un numero elevato persone emigra verso l’Inghilterra. Nel 1600, infatti, la Compagnia delle Indie – un’insieme di società inglesi attraverso il quale la Gran Bretagna gestiva il monopolio economico e commerciale nelle sue colonie – importava già manodopera a basso costo per i lavori più umili sulle sue imbarcazioni. Nel corso del XIX e del XX secolo i marinai bengalesi iniziano ad abbandonare le “fabbriche galleggianti” per trovare occupazione sul territorio britannico. L’adesione al Commonwealth consentiva loro di lavorare e vivere in Gran Bretagna senza grandi problemi burocratici o limitazioni di tempo.

Nel 1962 Londra comincia a limitare gli ingressi. Tra quanti si trovavano oltremanica, molti optarono per l’acquisizione della cittadinanza e del radicamento attraverso il ricongiungimento con moglie e figli.

Dagli anni ‘70 – il Bengala orientale ha a quel punto ottenuto l’indipendenza dal Pakistan, e il Bangladesh è nato come nazione – si aprono nuove destinazioni migratorie: i Paesi del Medio Oriente le cui economie in forte espansione necessitavano di forza-lavoro a basso costo. Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Iraq, Libia e alcuni stati di recente industrializzazione del Sud-Est asiatico, come Malesia e Singapore, videro iniziare l’arrivo di ingenti quote di lavoratori.

Dal nuovo millennio, inoltre, l’emigrazione bangladese si è caratterizzata per l’individuazione di nuove frontiere, tra cui alcuni stati dell’Asia orientale (Corea del Sud e Giappone), dell’Europa centrale (Germania, Francia, Paesi Bassi e Belgio) e mediterranea (Italia e Spagna).

L’immigrazione bangladese in Italia è un fenomeno relativamente recente. I primi arrivi risalgono agli anni ‘70. Per tutti gli anni ‘80 la presenza è, comunque, irrisoria e concentrata nella capitale. Sono gli anni ‘90 che qualificano l’Italia come destinazione importante: se dopo la sanatoria del 1986 il numero dei permessi di soggiorno rilasciati a cittadini bangladesi superava di poco le 100 unità, con la sanatoria del 1990 divennero quasi 4.000, per arrivare a oltre 70.000 all’inizio degli anni 2000. Oggi la comunità bangladese conta tra le 80.000 e le 120.000 presenze. A titolo di paragone, in Arabia Saudita lavorano oltre 2 milioni e mezzo di bangladesi e in Gran Bretagna 500.000.

Gli anni ‘90 sono contraddistinti anche dalla loro dispersione sul territorio nazionale: molti lavoratori bangladesi, finalmente in possesso di un regolare documento di soggiorno, lasciano la capitale. Iniziano, così, a nascere diverse “bangla-town” in molte realtà di provincia: consistenti collettività bangladesi che trovano stabilità in contesti locali, solitamente a ridosso di grossi centri industriali nelle regioni settentrionali.

Le cause strutturali che stanno alla base della migrazione bangladese, come d’altra parte di tutte le migrazioni internazionali di massa, sono fondamentalmente tre: le profonde diseguaglianze di sviluppo tra nazioni e continenti del Nord del mondo e del “sud globale”, l’inesauribile sete di forza-lavoro a basso costo delle economie dei Paesi dominanti, la volontà di riscatto delle popolazioni dei Paesi dominati.

La prima di queste tre determinanti – da cui sostanzialmente dipendono le altre due – va strettamente ricollegata allo sfruttamento coloniale e neo-coloniale che alcune nazioni agiscono a danno di altre, creando conseguenze talmente profonde da far sì che gli effetti si riverberino sino ad oggi. Si sono gettate, cioè, le premesse di un profondo “sotto-sviluppo” che, invece di arrestarsi, aumenta progressivamente tutt’oggi.

Abbiamo già accennato alle relazioni di stampo neo-coloniale che intercorrono tra Europa e Bangladesh e che possono essere lette come la prosecuzione del colonialismo europeo perpetrato per secoli nel subcontinente indiano. Era occidentale, infatti, il supporto economico e militare ai colpi di Stato che, in Bangladesh, hanno interrotto il percorso di emancipazione e sviluppo – attraverso la nazionalizzazione e la redistribuzione delle risorse – intrapreso dal Paese, all’indomani dell’indipendenza. Sono occidentali le multinazionali che controllano le risorse e le infrastrutture del Bangladesh, oggi. Sono occidentali le aziende che delocalizzano la propria produzione nelle fabbriche di Dhaka, imponendo ritmi massacranti, salari da fame, l’assenza di misure di sicurezza e mettendo in concorrenza l’uno con l’altro i diversi laboratori tessili bangladesi finanche i diversi Paesi subfornitori. Sono, ancora, i Paesi occidentali a beneficiare del fondamentale contributo di forza-lavoro, sempre più ricattabile e a basso costo, di coloro che cercano migliori condizioni di vita e lavoro attraverso la migrazione.

Francesco della Puppa