Fortezza Europa/1

Cie made in England

Galadriel Ravelli - 16 Dicembre 2013

1233519_610175862358120_1659455896_nNell’immaginario di molti l’Inghilterra è un luogo di integrazione e multiculturalismo, che offre opportunità a chi decida di andarci a vivere. Nella realtà l’Inghilterra si qualifica sempre di più come un paese europeo assolutamente in linea con le politiche migratorie della Fortezza Europa. La vita negli Immigration Removal Centers ricorda molto le cronache di ordinaria follia dei Cie italiani.

Nelle scorse settimane per esempio, il centro di Yarl’s Wood, situato a nord di Londra e costruito nel 2001, è tornato sotto i riflettori ancora per una vicenda di abusi sessuali. A compierli alcuni dipendenti dell’ente gestore Serco. Le vittime sono detenute in situazioni particolarmente vulnerabili. Secondo quanto riportato dal Guardian, alcuni addetti al servizio di vigilanza avrebbero prospettato a queste donne la possibilità di risolvere felicemente le loro situazioni problematiche (per esempio, un rimpatrio imminente) elargendo favori sessuali. Tre dipendenti coinvolti sono stati licenziati, ma dalle testimonianze di altre detenute emerge una situazione di abuso quasi sistematico. Il caso di “Tanja”, detenuta dall’agosto 2012 al marzo 2013, ha portato alla ribalta le terribili condizioni di vita delle donne nel centro: dopo ripetuti attacchi subiti nel silenzio e nella paura, il suo tentativo di denunciare i colpevoli per “comportamento sessuale inappropriato” diventa motivo di ulteriori maltrattamenti da parte del personale, che cerca di constringerla ad insabbiare l’accaduto (la sua denuncia fa riferimento anche a situazioni occorse ad altre detenute), sottoponendola ad un ulteriore trauma che la porta a passare giornate intere senza uscire dalla stanza, sfogando la paura tagliandosi le braccia.

Il tentativo di insabbiare gli abusi di Yarl’s Wood ha coinvolto anche altre donne. Per esempio, Sirah Jeng: quasi sessant’anni e in Inghilterra da dodici, avrebbe dovuto essere rimpatriata i primi di novembre. Una scomoda testimone che aveva assistito agli abusi subiti da Tanja – nel frattempo rilasciata – la cui voce non avrebbe più avuto modo di farsi sentire nel Regno Unito. Dopo anni di tentennamenti burocratici da parte delle autorità inglesi (la donna è sposata con un cittadino inglese ed era già stata detenuta a Yarl’s Wood quattro volte), il suo rimpatrio in Gambia è stato organizzato in tutta fretta. Come spesso succede in questi casi, specialmente se chi riceve l’ordine di rimpatrio ha dietro di sé una comunità di supporto, una campagna è stata organizzata per denunciare la doppia vergogna dell’improvviso rimpatrio e del tentativo di insabbiamento. La campagna ha avuto successo e oggi Sirah si trova ancora nel Regno Unito, dove continua a parlare in pubblico chiedendo l’apertura di un’inchiesta.

Nel corso di una recente ispezione governativa, eseguita senza preavviso, è stata rilevata nel centro una generale mancanza di assistenza specifica per le donne vittime di tratta. È stata riscontrata, inoltre, la presenza di quattro donne incinte (che in teoria non potrebbero essere rinchiuse, a meno che il rimpatrio non sia imminente). Tra le detenute c’erano anche vittime di mutilazioni genitali, lesbiche fuggite da paesi dove l’omosessualità è un reato penale, donne scappate da situazioni di guerra fortemente traumatizzate. Molte non parlavano inglese e non avevano contatti o figure di supporto esterne. Per loro la detenzione diventa ancor più traumatica. A partire da ottobre tuttavia, le donne di Yarl’s Wood hanno organizzato numerose iniziative di protesta, culminate col tentativo di 200 detenute di marciare pacificamente verso gli uffici dell’agenzia di frontiera inglese (la Ukba) presenti nella struttura.

Yarl’s Wood, che in passato è stato chiuso per ristrutturazioni in seguito a danneggiamenti provocati dalle proteste dei detenuti (prima che diventasse un centro femminile), è tristemente famoso anche per essere stato al centro delle polemiche sulla detenzione dei minori, resa possibile dalla presenza delle cosiddette “unità per le famiglie”. In seguito a ripetute denunce riguardo alla detenzione di bambini alla fine del 2010 il governo si espresse per mettere fine al fenomeno “entro il 2011”. L’ultima ispezione a sorpresa a Yarl’s Wood non ha rilevato la presenza di minori ma, come denuncia la campagna End Child detention now, la detenzione di minori migranti non è finita nel 2011. La campagna ha infatti riscontrato che nei primi tre mesi del 2013 sono stati almeno 37 i minori detenuti in Inghilterra.

Intanto il Parlamento britannico sta discutendo la nuova legge sull’immigrazione. Il suo principale obiettivo – nelle parole del Ministro dell’Interno Theresa May – sarà quello di rendere il Regno Unito un “ambiente ostile per i migranti irregolari”. Quella che viene propagandata come una misura che regolerà in maniera più puntuale la libertà di movimento e accesso al paese, è in realtà un vero e proprio attacco ai migranti. L’accesso al sistema sanitario nazionale verrà ulteriormente limitato e impedito ai migranti che non sono in grado di pagare le cure mediche, escludendo di fatto le categorie più vulnerabili. I casi in cui è prevista la possibilità di appellarsi contro una decisione negativa, sia in caso di domanda d’asilo che di richiesta di permesso di soggiorno, verranno ridotti da 17 a 4, introducendo una clausola che permette a chi ha commesso un crimine di appellarsi alla decisione solo una volta rimpatriato. Nella visione di May, tutta la società inglese dovrebbe contribuire al controllo sistematico della vita dei migranti: i locatori saranno responsabili dei documenti dei propri affittuari e tenuti a fare rapporto alle autorità quando non in regola, i famigerati “raids” della Ukba (che setaccia i quartieri delle grandi città in cerca di migranti irregolari) verranno aumentati e resi più capillari, le banche non potranno più accettare la richiesta di aprire un conto se non correlata da piena documentazione che certifichi la legale residenza in Inghilterra del richiedente.

Attualmente nel Regno Unito sono presenti 11 Immigration Removal Centers, gestiti da grandi compagnie private o dal Prison Service del governo, che normalmente gestisce anche le carceri statali. Ad essi si aggiungono alcuni luoghi di detenzione “a breve termine” nei pressi degli aeroporti. La detenzione amministrativa dei migranti in Inghilterra è stata formalmente introdotta già nel 1971 con l’Immigration Act, per colpire chi faceva ingresso nel paese illegalmente. A partire dagli anni Novanta, tuttavia, essa è diventata un fenomeno in rapida espansione: uno dei primi centri ad essere allestito, Campsfield, nei pressi di Oxford, “festeggia” vent’anni di vita nel 2013 e le stime delle moltissime realtà non governative che si battono a sostegno dei migranti parlano ormai di circa 30.000 persone detenute all’anno.

A prima vista, i centri inglesi sembrano essere lontani anni luce dalle condizioni di vita dei Cie italiani. La pagina della Ukba fornisce informazioni piuttosto dettagliate sugli orari di visita, i servizi forniti all’interno di ogni centro e gli spazi di cui i detenuti possono usufruire, come la biblioteca o la palestra. Per ogni centro vengono addirittura fornite indicazioni su come spostarsi coi mezzi pubblici per raggiungere la struttura perché, come tradizione vuole, nessuno di essi si trova in zone centrali. Alcune foto mostrano interni curati, computer a disposizioni degli “ospiti”, stanze provviste di ogni comfort, immagini che difficilmente possono richiamare alla mente quelle dei Cie italiani.

Queste formalità, se si cerca invece di andare oltre l’apparenza, appaiono tuttavia quanto meno subdole. La prima evidente contraddizione riguarda i tempi di detenzione, che possono essere “illimitati”, a seconda della complessità del caso e delle difficoltà incontrate nell’organizzare il rimpatrio. Una seconda sconfortante realtà è l’assoluta normalità della detenzione di richiedenti asilo che, in via generale, possono essere detenuti ad ogni fase del processo di applicazione per lo status. La detenzione di un richiedente asilo può avere una durata molto breve se, dopo l’intervista iniziale in cui l’agenzia di frontiera fa la sue prime rilevazioni, si ritiene che il caso avrà una rapida risoluzione (e nella maggior parte questo vuol dire che la persona potrà essere facilmente rimpatriata). Non sono tuttavia infrequenti casi di detenzione che si sono protratti fino a due anni (sebbene la legge ne raccomandi una “ragionevole” durata) e anche qui l’indefinitezza e l’insicurezza riguardo alla propria situazione sono aggravati da un’assistenza legale spesso assente o dalla mancata possibilità di avere informazioni accurate sul proprio caso e sul complesso e contorto funzionamento della politica migratoria. I tempi di detenzione sembrano allungarsi automaticamente nel caso in cui la persona abbia precedentemente commesso un crimine, ufficialmente per prevenire il rischio che questa possa tornare a delinquere.

Quest’estate, un furgone ha percorso senza sosta alcuni sobborghi londinesi, recando il seguente messaggio: “Sei illegale nel Regno Unito? Torna a casa oppure affronta l’arresto. Nella tua zona ci sono stati 106 arresti questa settimana”. Nonostante le polemiche, un portavoce del Primo Ministro Cameron ha affermato che la campagna stava avendo molto successo, promuovendo il rimpatrio volontario di chi si trovava irregolarmente nel paese.

È questo l’ambiente che Theresa May vuole rendere ancora più ostile.

Galadriel Ravelli