Le parole e le cose

Claudiléia e le lettere brasiliane

Stefano Galieni - 23 Dicembre 2013

claudileia_620x410«Se lo guardi dall’esterno sembra un lavoro meccanico eppure è quello che mi ha insegnato più dell’Italia e di Roma in particolare. Si sembra strano che inserire i volantini pubblicitari nelle cassette della posta permetta questo, ma provo a spiegartelo». A parlare è una donna esplosiva, Claudiléia Lemes Dias, giunta in Italia nel 2005, nata a Rio Brillante, nel centro del Brasile (Mato Grosso do Sul). È cresciuta in una fattoria in una zona di latifondi dove i contadini lottano ancora per vedere riconosciuto il diritto alla terra. Racconta di essere cresciuta in un contesto ingiusto di “povertà contadina” diversa da quella delle favelas. Le risorse agricole almeno davano da mangiare. Si definisce ora scrittrice e casalinga (con la scrittura non si campa) madre di due figlie, ma è difficile starle dietro quando elenca le mille attività in cui è coinvolta. A partire dal volantinaggio: «Sono arrivata nel 2005, fresca di laurea in giurisprudenza per fare un master di mediazione familiare. Non avevo borsa di studio e ho fatto i “lavori da immigrata” (baby sitter, domestica) ma soprattutto il volantinaggio pubblicitario. Lavoravo 6 giorni a settimana dalle 7 alle 15 e quando andava bene riuscivo a guadagnare anche 500 euro al mese. Per lavorare bene occorre tatto, senso dell’orientamento, conoscenza delle regole. Tatto perché la mattina, soprattutto il sabato, ogni volta che suonavo il citofono rischiavo di prendermi insulti. Ho imparato ogni genere di imprecazioni. Provavo a dire di essere delle Poste ma spesso non ci credevano per l’accento. Lavoravamo in gruppo. Un capogruppo italiano con un suo connazionale, un ragazzo iraniano, un signore rumeno e io. Il capogruppo ci assegnava i volantini e le strade e si cominciava a camminare. Roma e provincia le ho conosciute così. Il capo si accorgeva se provavamo a gettare nella spazzatura i volantini, se li prendeva il portiere del palazzo in cui ci fermavamo una parte del nostro guadagno andava a lui, era insomma un lavoro di sfruttamento totale, ma quello c’era. Se poi ci capitava di dover andare in bagno era un problema. Io ho sempre chiesto solo quando mi imbattevo in case di stranieri, non osavo farlo con italiani. E poi pioggia, freddo, intemperie, non potevamo fermarci mai». Ma intanto Claudéleia aveva cominciato a scrivere racconti e senza farsi troppi timori li ha inviati ad alcuni concorsi per farsi conoscere: «Ne avevo scritto uno, che a vederlo oggi mi sembra molto ingenuo. La storia di una bambina etiope che trascinata un po’ dalla madre gira per le strade di Roma e racconta questa città vista dal basso. Ho vinto una menzione al concorso Io e Roma e la cosa divertente era che quando mi sono presentata non capivano perché una brasiliana parlasse d’Africa e io, che mi sono sempre interessata della storia nascosta del mio Paese, quella del genocidio culturale degli indios e degli africani portati nella tratta, a spiegare che non era autobiografico ma un nesso c’era. L’anno dopo invio un altro racconto, un po’ particolare al concorso Lingua madre al Salone del libro di Torino. In quel periodo, abbandonati i volantini, facevo le pulizie nella casa di una signora comunista. La sua biblioteca era piena di opere di Marx e Lenin a cui teneva molto. Con lei siamo rimaste molto amiche. Mentre spolveravo mi squilla il telefono e mi comunicano che avevo vinto. Prima ho pensato ad uno scherzo, poi sono scoppiata a piangere. Mille euro, mi sembrava impossibile poter guadagnare tanto facendo quello che amo di più». Il racconto è una provocazione, immagino una spiaggia di leghisti nudisti in cui approda una barca di immigrati. I nudisti chiedono agli immigrati di “integrarsi” ovvero di spogliarsi, quando lo fanno si rivestono loro. «I vestiti rappresentano molto la cultura di un popolo, con questo gioco volevo parlare di come la mancanza di conoscenza reciproca e di scambio siano micidiali. La signora da cui lavoravo mi ha spinto a continuare e ho fatto leggere a lei la prima bozza di una raccolta di racconti che ho pubblicato, Storie di extracomunitaria follia, per La Compagnia delle lettere, piccola casa editrice in cui mi sono impegnata ma che ormai sarà costretta a chiudere». Nel frattempo Claudéleia Lemes Dias, lascia il lavoro e si sposa con un italiano che considera una fortuna poter avere la cittadinanza brasiliana: «Mio marito scherzando dice che mi ha sposato per questo. Mentre io attendo dal giorno del matrimonio la cittadinanza italiana so perfettamente che quella del mio Paese è ambitissima. Da noi è semplice: diventi cittadino se sei nato in Brasile, se hai un coniuge brasiliano o se hai per 10 anni la residenza nella nostra nazione anche se durante tale periodo vai in giro per il mondo. L’unico vincolo è che può divenire presidente della repubblica solo chi è nato in Brasile». Ora Claudiléia è impegnata nel suo secondo romanzo (è già uscito per Fazi, Nessun requiem per mia madre) ha una figlia adolescente iscritta al Mamiani, un liceo storico di Roma ed una più piccola di 4 anni. Ha aperto un suo blog (claudileialemesdias.simplesite.com.br/‎) a cui tiene particolarmente. «Si è un blog in cui traduco e pubblico materiale sul genocidio culturale e non solo subito innanzitutto dagli africani e poi dagli indios in Brasile. Sai secondo me è impossibile comprendere tante nostre contraddizioni, le favelas, i bambini di strada, la povertà se non si conosce un po’ di antropologia culturale e di storia della schiavitù. Mia nonna era angolana, i miei bisnonni sono arrivati come schiavi, io ho un cognome portoghese ma non conosco quello africano di mia nonna. Ed è un pezzo di Storia su cui si è cominciato a scrivere in Brasile ma di cui si sa pochissimo in Italia se non fra gli antropologi. I cognomi sono spariti, cancellati, le stesse ritualità che tanto affascinano, dalla Macumba al Candomblè a tutta la cosmogonia che ruota intorno, hanno dovuto trovare spazio nel sincretismo religioso per essere accettate e sopravvivere, quasi camuffate. Molti ignorano anche la storia e il dolore che si portano dietro. Recentemente sono stata in Rwanda, lì il genocidio anche fisico è più recente e ancora oggi spesso non si sa chi era la vittima e chi il carnefice. Un nostro intellettuale ha detto che ogni brasiliano porta dentro di se la cicatrice del torturato e la frusta del torturatore ed è terribilmente vero». Scrittrice, casalinga e impegnata nella difesa dei diritti umani, Claudeléia si ritrova a ragionare inevitabilmente anche di politica comparando il paese in cui è nata e quello in cui ora vive. «Dopo la dittatura il periodo peggiore per il Brasile ha coinciso con la presidenza di Fernando Collor de Mello. Lo aveva votato l’80% della popolazione perché giovane e portatore di cambiamento. La sua presidenza è stata caratterizzata da corruzione e ruberie di ogni tipo mentre cresceva la povertà. In tanti hanno visto la villa che si è costruito, con i rubinetti di oro massiccio. A scendere in piazza per chiedere di cacciarlo via siamo partiti dalle scuole, erano le manifestazioni delle cosiddette “facce dipinte”, volevamo nuove elezioni e l’impeachment per il presidente. Si è dimesso, poi si è passati a Cardoso che ha obbedito alle ricette economiche peggiori. Lula già si era candidato ma era avverso in patria e all’estero. Si diceva che avrebbe sostituito la bandiera brasiliana con quella rossa. Quando è diventato infine presidente ha fatto cose giuste e cose sbagliate. La migliore a mio avviso è legata alla lotta all’analfabetismo col progetto della “borsa scuola”. Si tratta di dare 50 reales alla famiglia di ogni bambino che andava a scuola. Una inversione di mentalità, non ti abbasso le tasse ma utilizzi il bancomat per ritirare i soldi grazie al fatto che tuo figlio studia. Anche lo staff di Lula ha avuto problemi di corruzione, ora c’è Dilma Rousseff, attaccata perché donna, perché accusata di essere lesbica e pessima madre. Nessuno l’accusa di incompetenza ma ha le mani legate, non ha la maggioranza e per far approvare alcune leggi si son dovuti pagare parlamentari dell’opposizione attraverso una banca. Da noi manca ancora una cultura della legalità anche se sul piano sociale si sono fatti tanti passi avanti». Ma Claudeléia ne ha molte anche per l’Italia: «Qui ci sono tante risorse. Quello che studia mia figlia al liceo sarebbe inimmaginabile in Brasile se non in una scuola privata mentre da voi è ancora un bene pubblico. Però state perdendo l’umanità, dovreste lavorare contro l’indifferenza, educare i giovani alla sensibilità. Dovreste ritrovare rispetto per il vostro passato, quando vedo Vittorio Sgarbi in tv che parla come l’anziano che incontro al bar sotto casa sto male. Vi state ammalando di qualunquismo. Qui in Italia resti ignorante perché lo vuoi, in Brasile perché non puoi. Una delle poche cose  che apprezzo della cultura statunitense è che  se lì se dal basso vai in alto sei un esempio. Qui se sei in basso è colpa tua. Ora che scrivo mi capita di raccontare in certi ambienti la mia storia e le mie esperienze e c’è chi si sente in imbarazzo. La vostra società è sempre più classista e io non voglio che le mie figlie pensino che questa gerarchia sia un fatto naturale. Mi fa paura il silenzio degli intellettuali. Dove sono i vostri scrittori quando si parla di diritti violati, di centri di detenzione per stranieri, di razzismo, di violenza verso chi è diverso? Eppure l’Italia ha dato i natali ad un grande come Pasolini. Ora gli intellettuali hanno rinunciato al proprio ruolo di pungolo e di critica al sistema e questo è pericoloso. Ma ho un altro timore per me e per voi. Quando sono arrivata in Italia ero abituata al dilagare della miseria nel mio paese che notavi ovunque. Qui sembrava che non ci fossero poveri. Poi sono stata al mercato di Porta Portese. Dal tram scendevano persone vestite bene e le vedevo rovistare fra i vestiti a 1 euro, vedevo che sorridevano senza denti. Ho cominciato a vedere la povertà nascosta, sembrano poveri solo gli immigrati ma non è vero e questo sta producendo una guerra fra poveri che fa crescere un razzismo sordo. E vedo qui alcune assurdità che ho visto anche da me. Nel sud del Brasile c’è una associazione che non è ancora diventata partito che vorrebbe autonomia e indipendenza. È stata fondata nel 1992 da un emigrato veneto Ersilio Caldorin. Il suo programma è semplice, nel nord non lavora nessuno, lavoriamo solo noi quindi il Sud deve essere dei sudisti. Non riceve consensi ma vi ricorda qualcosa?».

Stefano Galieni