Milano

Dar Casa agli stranieri

Ilaria Sesana - 23 Dicembre 2013

casaMilano, primi anni Novanta: migliaia di lavoratori stranieri arrivano in città. E, come era successo negli anni Sessanta, (quando a “invadere” la città furono pugliesi, calabresi e siciliani) devono fare i conti con affitti troppo alti, appartamenti fatiscenti, sovraffollamento e discriminazioni. Scoppia l’emergenza casa. Per far fronte a questo problema, alcuni cittadini decidono di creare un’alternativa e fondano una cooperativa d’abitazione, per e con i migranti. Nasce così, nel 1991, Dar Casa, una cooperativa che oggi conta 1.500 soci, gestisce 1.500 appartamenti e offre a decine di famiglie la possibilità di pagare un affitto equo, di costruire (o riunire) la famiglia, di trovare il proprio posto nella comunità e nel quartiere.
Una storia avvincente, che racconta Milano da un inedito punto di vista. A scriverla, Piero Basso, 78 anni, primo presidente della cooperativa (si è dimesso nel 2005) che per i tipi della casa editrice Terre di mezzo ha pubblicato Dar Casa. Cronaca di un sogno realizzato. Un certosino lavoro di ricostruzione della storia della cooperativa e della Milano che ci girava attorno.
«Abbiamo concretizzato un sogno importante. Certamente non ci aspettavamo che la nostra attività avrebbe prodotto questi risultati – commenta Basso –. Inoltre, negli anni, il nostro modo di lavorare si è evoluto: fino a quando si devono gestire 20 o 50 alloggi si riesce ad avere un contatto personale con tutti e i problemi sono certamente minori. Ma quando l’attività è cresciuta abbiamo dovuto dotarci di una struttura più solida, assumere personale qualificato».

Perché avete scelto la parola “Dar” per il nome della vostra cooperativa?

È una parola araba, che significa “casa”. L’abbiamo scelta, innanzitutto, perché nel gruppo c’era una ragazza algerina, è stata lei a suggerire il nome. Inoltre, in quegli anni, la maggior parte degli immigrati che arrivavano a Milano erano nordafricani.

In che contesto è nata la cooperativa?

Per gli immigrati è sempre stato difficile trovare casa a Milano. Ho iniziato a conoscere questo fenomeno quando sono arrivate le prime ondate di profughi politici in fuga dall’America Latina, cileni e argentini. Con l’arrivo dei migranti economici, tra gli anni Ottanta e Novanta, il problema della casa è diventato drammatico: locali inadatti, situazioni di coabitazioni difficili, affitti da rapina.

Come avveniva negli anni Sessanta con i meridionali?

Ho l’impressione che per gli stranieri la discriminazione sia stata meno sfacciata. Niente cartelli con la scritta «Non si affitta a…». Ma la discriminazione c’è stata. Nel libro, le testimonianze di alcuni ragazzi raccontano le disavventure che capitavano in quegli anni. Al telefono la casa c’era, ma poi non c’era più…

Quale tra i tanti progetti è stato il più significativo?

Il nostro fiore all’occhiello resta l’intervento fatto nel quartiere Stadera: quattro edifici di proprietà Aler completamente risanati, erano vecchi palazzi con il bagno comune sul ballatoio. Abbiamo lavorato in collaborazione con Aler e un’altra coop. Il risultato: 48 alloggi per altrettante famiglie provenienti da diversi Paesi. Ma non fu solo lavoro da muratori, il progetto di risanamento prevedeva anche l’attività di una cooperativa di mediatori che ha preparato il quartiere ad accogliere questa novità. Noi, ovviamente, siamo disposti a ripetere l’esperienza. Ma l’ente pubblico in questo momento ha altro per la testa.

Vi siete mai scontrati con ostilità o diffidenze degli altri abitanti dei quartieri?

Fortunatamente, da questo punto di vista, non abbiamo mai avuto grandi problemi nei nostri alloggi. Ricordo un episodio, avvenuto molto tempo fa a Quarto Oggiaro. Il Comune ci aveva affittato 30 appartamenti, abbiamo iniziato i lavori e iniziamo a percepire una certa ostilità, diffidenza. Abbiamo iniziato a parlare con la gente, spiegando che l’alternativa non è tra “Dar” e il principe azzurro. Ma tra “Dar” e la possibilità che gli appartamenti sfitti venissero occupati da spacciatori. Anche chi ha pregiudizi e brontola per gli odori di una cucina diversa sa che è meglio una famiglia di gente che lavora piuttosto che una casa occupata.
Si tratta comunque di fasce marginali della popolazione, che vengono “inserite” in contesti già difficili.
Il rischio c’è. Ma la marginalità dei nostri inquilini è più apparente che reale, i nostri stranieri lavorano, hanno una famiglia. Certo, hanno un basso reddito, ma nella maggiorparte dei casi non si tratta di soggetti problematici. È più “al margine” un anziano solo, che non a caso rappresentano la maggioranza degli abitanti nei quartieri di vecchia edilizia popolare.

Ilaria Sesana