Intervista a Gabriella Ghermandi

- 23 Dicembre 2013

«Per i bianchi non ero bianca e per i neri non ero nera. La nostra era una vita mista, fatta di quattro lingue: amarico e italiano tutti i giorni, bolognese e tigrino nei giorni di festa». Gabriella Ghermandi è nata ad Addis Abeba nel ‘65, è in Italia dal ‘79 e vive a Bologna, città d’origine del padre. Da anni scrive e interpreta spettacoli, anima laboratori e festival alla ricerca della «identità unica di ciascun individuo». Il suo primo romanzo Regina di fiori e di perle (Donzelli) ha venduto oltre tremila copie ed è diventato uno spettacolo. Da piccola le avevano predetto che sarebbe stata «una cantora».

«Motore della mia narrazione è l’emozione». Gabriella Ghermandi lo ripete spesso ma quel che è più importante lo fa capire attraverso le pagine scritte, il raccontare, il canto. «Non si parla più del colonialismo italiano, è un pezzo di storia scolorita sino a diventare invisibile. Di quel periodo restano due concetti. Il primo sostiene “noi italiani colonialisti? Ma va là…” e il secondo “siamo stati bestie, abbiamo usato i gas nervini”. Ma questi concetti non sono la “storia” del colonialismo italiano perché quella storia è costituita dalle tante, infinite storie personali che l’hanno plasmata». Una è la sua. «Imprevedibile come la vita» affonda le radici in un piccolo villaggio dell’Eritrea che gli italiani occupano da 35 anni, strategicamente importante perché vicino all’Etiopia. Così arrivano i militari e… nasce un amore. Le leggi razziali ancora non sono varate ma comunque non è buona cosa per un italico ufficiale “elevare” un’africana al rango di sposa. E così il nonno di Gabriella viene cacciato. E sparisce. La figlia di quell’amore faticherà a trovare un’identità: crescerà fra gli italiani senza essere mai pienamente accettata.

Lo spettacolo racconta anche della piccola Gabriella che, tanti anni dopo, sbarcherà nella Bologna del padre: «Una città dove gli alberi non devono avere radici troppo grandi, se no rovinano l’asfalto» annota con ironia e dove le case sono così vicine che tutti sanno quel che accade di fronte ma poi, in strada, fanno finta di non conoscerti: «Qui ho capito che non ero italiana». Ricorda che la madre, quando venne in Italia, si stupì che i fiumi non fossero di latte (come le avevano raccontato le suore della scuola in cui era cresciuta) proprio la stessa illusione dei poveri migranti siciliani sulla ricca “Ammmerica” raccontata da Emanuele Crialese nel film Il mondo nuovo. Anche la madre in Italia rischia di perdersi ed è solo tornando in Africa, dopo tanti anni, che si sente di nuovo nascere e finalmente scioglie il dolore di un incerto collocarsi fra due mondi. «Ora finalmente posso narrare la sua storia, che è la mia e anche la vostra» dice Gabriella Ghermandi.

Nella sua famiglia ancora sanguinavano vecchie ferite, per questo il suo primo libro non poteva essere una biografia. Quando il dolore si è trasformato in desiderio di comunicare e lei ha potuto scrivere con serenità?
Solo quando mia madre è tornata in Eritrea e ha trovato pace con se stessa, io ho potuto pensare di scrivere della mia famiglia e dunque del colonialismo. Per molti eritrei come per tanti italiani, ancora oggi la sofferenza è così grande da paralizzare. Poco tempo fa ero negli Stati Uniti per una conferenza e un vecchio italiano, credo fosse il rappresentante locale dell’Udc, mi ha contestato dicendo “noi non siamo stati colonizzatori ma amici”. Ovviamente io sono un’artista non una studiosa di storia e dunque non saprei raccontare quel periodo che attraverso il racconto, lo spettacolo; ma in ogni caso il blocco è così potente che credo lavorare sulle emozioni personali sia davvero l’unica strada per uscirne.

Il nonno italiano di cui lei racconta aveva «un pezzo di cielo negli occhi», era «troppo diverso» per molti eritrei. Oggi l’esotico è anche erotico, dice un gioco di parole. In una società sempre più meticcia a far prevalere desiderio o paura è la scelta personale o invece… il clima che creano i media?
Io sono ottimista, credo che i desideri prevalgano sulle paure; forse è l’istinto di sopravvivenza che ci porta a mescolarci senza timore. Vedo che accade ovunque. Sono stata da poco in Etiopia e ho trovato cinesi e indiani dappertutto. Il mondo si muove, sarebbe ora che tanti italiani capissero che è un fenomeno mondiale non un problema del loro quartiere. Per sopravvivere dobbiamo contaminarci. Di solito sulla scelta personale prevale l’ambiente o la comunità di appartenenza. In Italia più che altrove: conosco una cosiddetta “coppia mista” italiana e so che pensano di andare negli Usa per stare più tranquilli perché, come dice, un mio amico etiope “nel Wisconsin nessuno si gira a guardarmi come fossi una bestia rara”. Per tanti versi l’Italia è più indietro, peccato perché di razzismo ce n’era poco; è il coro dei media e la speculazione politica che ci portano indietro. Tanti eritrei hanno amato Bologna perché, quando eravamo in esilio, qui si faceva la nostra festa ed eravamo accolti come fossimo una brigata internazionale, tutti compagni. Oggi a Bologna si fa quasi la guerra ai lavavetri, che tristezza.

Nel suo spettacolo lei racconta delle stragi seguite all’attentato a Graziani, poi intona una canzone. Cos’è?
Un canto tradizionale etiope, secondo la scala pentatonica si chiama Bati. È una metafora in cui si chiede alla coscienza di svegliare gli animi dormienti. Non è usata solo in situazioni tragiche ma è un modulo su cui spesso si improvvisa; in questo caso io ho aggiunto pochissimo. Per esempio dice: “Chi sei tu che vieni a svegliare il cuore della gente che dorme? A te piace stare sopra le colline con i nostri figli…”. Spesso la voce del popolo arriva attraverso i più giovani che ci svegliano dal torpore o ci raccontano, attraverso il loro modo di fare, ciò che stiamo trasmettendo loro.

Lei spiega di non aver scritto un romanzo, il giardino è fiorito da solo… e la protagonista viene come «sommersa». Ora stanno fiorendo altre perle? C’è chi racconta a lei storie perché poi possa scriverle o cantarle?
Vorrei scrivere un altro romanzo, l’ho in mente ma… ho un po’ paura. Forse ho bisogno ancora di tempo. Però nell’ultimo viaggio in Etiopia sono stata riempita, infarcita addirittura, di storie: le nostre donne sono toste. Scriverò ancora perché lo devo a loro e saranno ancora storie dentro storie perché questo è il nostro modo di raccontare, in ogni vicenda ne spuntano sempre altre.

Ha scritto: «solitudine e individualismo sono le malattie dell’Occidente». Ne aggiungiamo altre? Rassegnazione e paura? Oppure ignoranza e autismo? Oppure schizofrenia e l’essere «posseduti» dal denaro, dalle merci?
Quest’ultimo è sicuramente un morbo terribile, sempre più diffuso. Tutte quelle citate ci fanno vivere male ma fra le peggiori malattie c’è la mancanza di memoria, nessuno ricorda più chi era a livello di singoli e di popoli. Così si diventa presuntuosi proprio mentre servirebbe avere i piedi per terra. Per esempio in Italia ricordando che, non molti anni fa, tante persone sono morte in piazza per ottenere i diritti minimi. Non penso solo alla Resistenza ma agli operai che lottavano per rendere migliore tutta la società.

Daniele Barbieri

Intervista pubblicata dal quotidiano  Liberazione  nel 2008. Da allora Regina di fiori e di perle è stato più volte ristampato.