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Ponte Galeria, timeout di Natale

Stefano Galieni - 25 Dicembre 2013

1480658_705120496194378_492230245_nKhalid Chaouki, probabilmente sottoposto a irriferibili pressioni, lascia Lampedusa, anche se 17 ospiti del Cpsa si trovano ancora presso il centro. Nel Cie di Roma la protesta continua, ma in omaggio al Natale e al dialogo interreligioso, ancora tre ospiti accettano di slegarsi le labbra. Almeno per un giorno.

Entriamo che è quasi il tramonto di questo strano Natale, regna un silenzio irreale e un senso di deserto nel Cie di Ponte Galeria. Con Marta Bonafoni, preziosa consigliera della Regione Lazio, eravamo già entrati 2 giorni, fa in piena rivolta. Le bocche cucite dei migranti rinchiusi le avevamo viste fra le sbarre. Oggi ci sono pochi militari di vigilanza, il direttore del centro, del Consorzio Auxilium, è a riposo. Ci accolgono il coordinatore e alcuni mediatori culturali. E stiamo percorrendo i corridoi gelidi e opprimenti quando ci raggiunge Padre Emanuele con una notizia inaspettata. «Si sono scuciti le labbra». Lo dice con gioia, quasi commosso. In pochi minuti il sacerdote, gli operatori del centro, ci raccontano delle ultime ore convulse: «Quando il giorno prima hanno visto le immagini di Lampedusa, con i pullman che partivano, hanno alzato il tono della protesta. Volevano salire sui tetti. Uno di loro aveva pronta una corda. L’idea era semplice e terribile, salgo sopra, se si avvicina la polizia mi getto e mi impicco. Poi hanno capito che anche quelli di Lampedusa non erano liberi, allora hanno deciso di dormire all’aperto e hanno portato fuori i materassi, erano in 17. Nel frattempo, 5 su 9 si erano fatti scucire le labbra ormai gonfie e infette. Restavano in 4 compreso l’imam che però mantiene il volto coperto». Mentre il medico del centro tendeva a sminuire la gravità delle condizioni fisiche dei 24 che da sabato rifiutano il pasto, il sacerdote parlava di spossatezza e di disagio che solo la determinazione permetteva di sopportare: «Hanno scelto una forma di lotta intelligente e non violenta, drammatica e cruenta se volete, ma è il solo modo che hanno trovato per far sentire la loro voce. Per me posti così non dovrebbero esistere e le persone non dovrebbero ritrovarsi a soffrire così».

Don Emanuele, prete di Ladispoli, aveva chiesto e ottenuto di celebrare messa con i trattenuti, ma la cerimonia era presto divenuta utile occasione di dialogo interreligioso basato sul rispetto reciproco. E intanto arrivava la notizia attesa, anche altri 3 avevano posto fine alla tortura che si erano inflitti. “Per rispetto al dialogo interreligioso”. Una pausa, “condizionata” dal Natale. Non una resa. Ci avviamo velocemente verso i padiglioni del settore maschile, fra chiavi e sbarre. Un giovane dell’Auxilium afferma sconsolato: «Quando fuori mi chiedono che lavoro faccio, rispondo: “Bah, come il secondino”. E non mi piace per niente, ma è vero». Le luci sono basse e il centro sembra ancora più cupo. Le sbarre incombono alte e minacciose, quasi a volerti ingoiare. I cortili sono vuoti, ci accompagnano nella sala mensa dove Don Emanuele ha raggiunto i detenuti. E adesso sono loro a parlare. Il gruppo dei magrebini, che ancora rifiuta il vitto. Sono seduti compatti poggiati ai tavoli, in alcuni si avverte la stanchezza, in altri diffidenza e distanza. Parla uno per tutti. «Abbiamo ascoltato Don Emanuele e in nome del rispetto delle religioni abbiamo deciso per oggi di sospendere la protesta. Non mangeremo ma dormiremo all’interno delle nostre gabbie. Aspettiamo rapidamente segnali dal governo, dateci una mano, fate qualcosa. Siamo pronti tutti a riprendere la nostra lotta, a ricucirci e a protestare. Ho saputo che anche a Bari si stanno ribellando e così a Torino. Dovete farci liberare». L. parla un ottimo italiano, è in questo paese da tanti anni. È stato in carcere, è passato più volte nei Cie, è stato anche rimpatriato. Ma è tornato e lavorava. Lo hanno preso tornando a casa e da allora è nel Cie. «Perché in nome di un pezzo di carta dobbiamo restare rinchiusi? Io ho fatto errori, chi di noi non li ha fatti, ho pagato e voglio avere una occasione per ricominciare, posso fare molto anche io in Italia».

Don Emanuele scrive la lettera al Papa, sotto dettatura degli "ospiti"

Don Emanuele scrive la lettera al Papa, sotto dettatura degli “ospiti”

Nel frattempo, il momento di dialogo col sacerdote ha fatto emergere una idea che raccoglie consensi anche fra i più scettici. «Scriviamo al Papa». E ci siamo ritrovati a vederla nascere, una lettera collettiva, scritta dai poveri, (così si descrivono), ognuno ci infila un brandello della propria storia o delle proprie aspirazioni. Una lettera difficile da non leggere, in cui si parla con un linguaggio semplice e vissuto, di diritto alla giustizia, alla pace, alla libertà. Una lettera in cui si denuncia la crudeltà delle leggi che li vuole o sfruttati o rinchiusi. E i brani si intersecano, si confondono ma non confondono, sono tante voci a parlare ma quello che emerge è un unico potente grido che sperano venga raccolto. Marta Bonafoni prende impegni per quelle che sono le competenze regionali e assicura massimo e urgente impegno. Una mozione in materia l’ha già depositata in Consiglio ed è stata firmata da tutti i capigruppo della maggioranza di centro sinistra. Ma servono fatti. Solo decisioni governative urgenti e imminenti potrebbero impedire che accada il peggio. Ci spostiamo nel settore femminile. Hanno appena terminato di cenare e hanno anche potuto festeggiare il compleanno di Jennifer, una ragazza nigeriana. Due donne stanno ancora mangiando mentre altre provvedono a rassettare, ci salutano a malapena e con indifferenza. Ne hanno viste tante di delegazioni passate senza che nulla sia mai poi cambiato, come dar loro torto? Una donna tunisina aveva tentato il 24 il suicidio. Ora pare stia meglio ed è seguita. Suo marito è nel reparto maschile.

Restiamo soli, con 2 dipendenti e la sala mette ancora più oppressione. Ogni angolo di questa struttura sembra pensato per creare disagio e apprensione, per mettere dentro una angoscia che non ti abbandona neanche quando esci. Non dipende dallo stato dei cessi o dalle mura scrostate: è semplicemente un posto invivibile. Una operatrice ci ferma all’uscita e quasi arrossendo ci domanda: «Ma sapete qualcosa della nostra cassa integrazione?». Così come accade negli altri centri, il taglio delle spese con le gare di appalto al ribasso è ricaduto sulla già oscena qualità della vita degli “ospiti” e sulle condizioni lavorative del personale. Sono in cassa integrazione da 3 anni, l’appalto di gestione è scaduto e non si sa se verrà rinnovato, non sanno neanche se i mesi di cassa di novembre e dicembre verranno loro pagati (lo decideranno in Regione il 31 dicembre) e non sanno neanche se avranno il rinnovo nel 2014. Anche loro chiedono aiuto. Uscendo dalla mensa femminile, vediamo fra le gabbie un gatto che passeggia. Un primo, forse unico, segnale di normalità. Fuori è ormai buio pesto e il deserto dell’intera area circostante il centro è ancora più inquietante. Ci restituiscono i documenti che stavamo dimenticando all’ingresso e in maniera beffarda salutiamo dicendo: «Potete tenerli. Tanto torniamo presto. Buon Natale».

Stefano Galieni