Scritture meticce

Alain Mabanckou, vite da immigrati

Gabriella Grasso - 6 Gennaio 2014

PARIS : Alain MabanckouCongolese di nascita, francese di adozione, oggi Alain Mabanckou, romanziere prolifico, vive a Los Angeles dove insegna letteratura francofona all’università. Cinque dei suoi romanzi sono stati tradotti in italiano, tra questi il recente Zitto e muori (66thand2nd, 15 euro). È la storia di Julien, un congolese che arriva clandestinamente in Francia, assume un’altra identità e frequenta la Parigi degli immigrati sotto l’ala protettrice di Pedro, un connazionale dalla professione non meglio identificata. Quando però viene accusato di omicidio, la sua vita cambia. Abbiamo incontrato l’autore.

In questo romanzo lei usa l’umorismo per raccontare aspetti veritieri della vita degli immigrati in Francia.
«L’umorismo è un ottimo modo per far passare dei messaggi e raccontare delle verità. Avveniva la stessa cosa con le favole: avevano come protagonisti degli animali, ma descrivevano comportamenti della società degli uomini. Ridendo le lezioni passano meglio che con il dramma».

Quando Julien va a comprare un vestito in un negozio gestito da un africano, gli viene caldamente consigliato di acquistarne uno dai colori accesi, evitando le tinte sobrie usate dai francesi. «Se non lo scegli vuol dire che sei ancora sotto la dominazione coloniale!» gli dicono. È davvero così presente, nell’animo degli africani, migranti e non, questa preoccupazione?
«Sì. Si crede che la colonizzazione sia terminata, invece resta nella mentalità. Abbiamo verificato con il tempo che è facile restare prigionieri degli antichi colonizzatori attraverso l’abbigliamento, la cucina e altre forme di cultura. Per questo Pedro e gli altri cercano di esprimersi in maniera originale, adottando un modo di vestire atipico per la Francia, rifiutando così la dipendenza dalla moda occidentale. In generale, però, non è una questione che riguarda solo gli emigrati, ma anche chi vive in Africa, perché l’Europa continua a dominare il Continente attraverso l’economia».

L’appartamento dove Julien vive con altri congolesi è frequentato da alcune ragazze francesi appassionate di Africa: studiano antropologia, si vestono con stoffe etniche e portano i dreadlock. Ma i neri non le prendono sul serio: perché?
«Gli africani hanno la tendenza a sottovalutare i propri canoni di bellezza e pensare che è bello solo ciò che arriva dall’Occidente. Quindi trovano sorprendente che ci siano occidentali che si ispirano ai loro codici estetici e di abbigliamento. In realtà questo avviene da tempo e non solo nella vita quotidiana: molti artisti, come Picasso, si sono ispirati all’Africa. E oggi nei musei d’arte contemporanea, quella africana è di moda. C’è gente che ama la cultura africana e coltiva questa passione con sincerità. La faccenda diventa discutibile quando si tratta solo di un capriccio esotico. Non è certo facendoti le treccine che diventi africana! Quello che occorre è entrare nell’anima di un popolo, comprenderne la vita quotidiana. Non puoi trasformare l’Africa in una sorta di ciliegina sulla torta per far sapere al mondo che sei bella, buona, corretta e antirazzista!».

Molti dei personaggi ripetono che la Francia ha rubato all’Africa e quindi gli africani hanno il diritto di rubare a loro volta. Addirittura Pedro dice a Julien: «Non comprare mai il biglietto per il metro, questo paese ci ha fregato le materie prime per anni e anni, quindi ci deve un risarcimento, è normale». Al di là delle esagerazioni, è un pensiero comune?
«Sì, nella testa di molti vecchi colonizzati resta l’idea che la ricchezza dell’Europa si fonda sul furto di materie prime, sulla schiavitù e la colonizzazione. D’altra parte, grandi città come Bordeaux, Nantes e Le Havre si sono arricchite grazie alla tratta degli schiavi. E non dimentichiamo che molti africani sono venuti a combattere le Guerre Mondiali e hanno contribuito a liberare la Francia. Quindi alcuni pensano: visto che esiste un “debito coloniale” che non è mai stato riconosciuto, il risarcimento ce lo prendiamo come possiamo. Questo pensiero poi si declina in varie forme: i disonesti ritengono sia lecito rubare. Altri affermano, magari solo per ridere, che sia giusto “prendere le donne dei bianchi”. Poi esistono dei veri e propri movimenti che domandano alla Francia un indennizzo per le sevizie, le deportazioni e gli omicidi subiti dagli africani durante gli anni della schiavitù e della colonizzazione, esattamente come gli ebrei hanno chiesto degli indennizzi per la Shoah. Ma la vera domanda è: a chi dovrebbero andare questi soldi? Non dimentichiamo che c’erano molti neri che collaboravano con gli schiavisti alla vendita di esseri umani».

A questo proposito, lei in varie occasioni ha sottolineato l’importanza della responsabilità individuale.

«È un concetto fondamentale. Io posso accusare i bianchi per le loro colpe, ma poi devo anche domandarmi: io non ne ho? Non ho contribuito a quello che è successo? In realtà, così come durante l’occupazione tedesca ci sono stati dei francesi che partecipavano alla caccia agli ebrei, anche lo schiavismo ha avuto i suoi collaborazionisti: in tutti i conflitti c’è chi soffre e chi approfitta della situazione per fare i propri affari».

Un altro tema che lei affronta, sempre con il sorriso, è quello dell’odio tra i neri africani e quelli delle Antille.
«Esiste davvero. Gli antillani sono arrivati in America tramite la schiavitù e rinfacciano agli africani di averli venduti. È una generalizzazione, ovviamente. E anche in questo caso c’è una mancanza di assunzione di responsabilità individuale: avere qualcuno con cui prendersela è un buon alibi per giustificare i propri fallimenti».

Molti stati Africani fanno fatica a svilupparsi anche per colpa della dilagante corruzione, che alcuni attribuiscono alle interferenze politiche ed economiche dell’Europa: anche questo è un alibi?

«Il problema non è solo la corruzione, ma anche la mancanza di democrazia e di cultura, il disequilibrio nella distribuzione della ricchezza… Non bisogna attribuire agli altri tutte le responsabilità, ma nemmeno far finta di non vederle dove ci sono: ogni volta che in Africa va al potere un nuovo presidente, sono la Francia o gli Stati Uniti che lo scelgono».

E qual è allora la responsabilità degli africani?

«Aspettare che l’Occidente li aiuti. Da una parte lo criticano, dall’altro contano sul suo appoggio: come se non potessero lavorare, prendere l’iniziativa e svilupparsi da soli senza l’intervento degli antichi colonizzatori».

Nel suo ultimo libro Lumières de Pointe-Noire, non ancora pubblicato in Italia, racconta il ritorno al suo Paese dopo 23 anni. Com’è stato?

«Sono partito per la Francia da ragazzo e non sono più tornato benché i miei genitori vivessero lì: un po’ perché studiavo, un po’ perché negli anni ‘90 ci sono state due guerre civili in Congo ed entrare nel Paese era molto difficile. Ovviamente tutto è cambiato da allora. Questo viaggio mi ha permesso di fare un bilancio, di riaffermare il legame con la mia famiglia e il mio popolo. È stato come prendere una boccata di ossigeno. Io mi sento congolese, perché è lì che sono nato. Poi, ovviamente, sulla mia identità influiscono le tante esperienze che ho vissuto altrove».

Cosa pensa del modo in cui l’Europa gestisce l’arrivo dei migranti?

«Gli incidenti avvenuti di recente a Lampedusa sono catastrofi terribili. Per quanto riguarda l’Africa, mi sembra che non esistano sufficienti programmi volti a sensibilizzare gli africani sulle risorse e le possibilità di sviluppo che i loro Paesi possiedono. Al contrario, continua a essere incoraggiata l’idea che lo sviluppo esista solo in Europa e la riuscita si ottenga solo migrando. C’è un’attività pedagogica da svolgere. Così com’è stata venduta la falsa idea che partire per la Francia o l’Italia sia sempre meglio che restare, ora bisogna spiegare che non è necessariamente così. E gli emigrati stessi devono raccontare la verità su come si vive in Europa. È un’operazione che deve coinvolgere i media e la politica. Infatti è anche una questione di politica culturale: perché il visto per l’Italia o la Francia dev’essere difficile da ottenere, mentre gli europei che si recano in Africa non hanno alcun problema? Più l’Europa chiude le frontiere, più la fantasia degli africani si eccita: se è così difficile entrarci, deve essere un posto davvero bello! È come se in una casa ci fossero tre stanze e si dicesse a un bambino che può accedere alla prima e alla seconda, ma non alla terza. Lui cercherà la chiave per entrare proprio lì. Ecco: l’Europa è la terza stanza. Oggi molti migranti se ne tornerebbero volentieri a casa loro, ma non lo fanno perché hanno paura di non poter, eventualmente, rientrare. Se avessero facilità di movimento, le cose sarebbero diverse».

Lei che ha vissuto in Francia e da 11 anni abita negli Usa, che differenza vede nelle politiche migratorie dei due Paesi?

«Gli europei pensano agli immigrati come a degli invasori che vengono a rubare il pane. Non vedono gli aspetti positivi di questi arrivi. In Europa molti hanno spiegato la crisi economica con l’aumento dei flussi migratori e questo ha fatto sì che i partiti di estrema destra prendessero potere. Gli Usa, invece, adottano la politica dell’immigrazione “scelta”: fanno entrare solo coloro che possono costituire un fattore di sviluppo per l’economia. Ma hanno il problema dell’immigrazione clandestina dal Messico: per questo hanno costruito il muro. D’altra parte, non si può far entrare tutti. E dove c’è continuità territoriale è più facile che entri chiunque, senza controllo: anche criminali di ogni tipo».

Negli Stati Uniti l’integrazione è più facile?

«È un Paese che dà a tutti una possibilità. In Italia un ministro come Cécile Kyenge ha avuto la sua chance, ma è stata più volte insultata. Negli Usa questo non potrebbe succedere: è un Paese in cui tutti sono migranti, tranne i nativi. I problemi che esistono non sono legati all’immigrazione quanto alle questioni razziali e agli squilibri economici. Gli Usa devono evolversi e fare in modo che le varie entità arrivate da ogni parte del mondo riescano a coesistere. Io spero che questo avvenga, altrimenti la nazione sarà in conflitto perenne. E mi auguro che anche in Italia ci si ricordi che viviamo in un mondo comune: in fondo il mio Paese, Congo-Brazzaville, prende il nome da Brazzà (l’esploratore Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà, ndr), che era un italiano».

Gabriella Grasso