L'intervista

Khalid Chaouki e l'”occupazione” a Lampedusa

Stefano Galieni - 6 Gennaio 2014

Khalid-Chaouki_7_foto-di-Gian-Marco-Ceccotti-e1367484652614Due settimane fa Khalid Chaouki, parlamentare Pd e coordinatore del Gruppo interparlamentare sull’immigrazione, si era rinchiuso con i trattenuti nel Cpsa di Lampedusa per protesta contro il trattamento inumano e illegale riservato agli “ospiti”. La sua presenza è servita a sbloccare una situazione in stallo da tempo. Duecento persone sono state trasferite. Ma 16 si trovano ancora lì: sono quelle chiamate a testimoniare sul naufragio del 3 ottobre.

Dove sono stati portati i migranti?
«Sono dislocati nei vari Cara, in Sicilia, a Roma e in altre località. Si sentono però ancora rinchiusi. Alcuni sapevano che non li attendeva immediatamente la libertà, molti lo hanno appreso nei centri. Comunque sono determinati a non lasciare le proprie impronte perché non vogliono restare in Italia. Dopo le denunce che ci sono state e le interrogazioni parlamentari presentate, a cui non è stata data risposta, le autorità hanno capito che è meglio non costringere nessuno. Non nei centri le cui condizioni non sono affatto ottimali per l’accoglienza».

E per quanto riguarda quelli rimasti? Lei aveva detto che non se ne sarebbe andato senza di loro.
«Me ne sono andato con rammarico. Fino all’ultimo ho sperato di poter fare uscire anche loro. Considero la presenza a Lampedusa dei 16 rimasti un atto illegale. So che ora sono in condizioni migliori, resto in contatto continuo. La magistratura ha velocizzato le pratiche e una udienza ci sarà il 9 gennaio. Ma permangono in situazioni di illegalità. Mi tranquillizza un po’ la presenza di assistenza psicologica, ma loro vivono in una grande fragilità, non solo Fanus (la diciottenne in stato di forte prostrazione) ma anche un ragazzo eritreo, sempre sopravvissuto al naufragio, sono in condizioni difficilissime. Per me la vicenda di queste 16 persone è l’emblema di come le modalità di assistenza ai profughi non favoriscano la lotta ai trafficanti. I testimoni non sono aiutati e garantiti. Molti a Lampedusa mi hanno detto che se è questo il trattamento per chi vuole denunciare trafficanti e scafisti allora è meglio voltarsi dall’altra parte. Questo avviene per responsabilità e negligenza di alcuni funzionari. Io su questo terreno continuo a battermi, sono in contatto continuo con le procure di Agrigento e Palermo. Per chi è rimasto, Lampedusa rappresenta un incubo, una vera e propria tortura psicologica, rivivono quelle ore, vogliono andare via. Lo sanno bene anche gli operatori della Croce Rossa e i militari. Ci aspettiamo una risposta celere, è ipocrita piangere i morti e trattare male i vivi».

Ha ricevuto delle pressioni per lasciare il centro?
«L’iniziativa che ho preso voleva ottenere, come poi è stato, un intervento rapido. Non era interesse di nessuno rendere palese dare visibilità a quanto accadeva a Lampedusa. Sono ripartito, con amarezza, ma dopo una negoziazione in cui ho cercato di ottenere il massimo. Anche la maggiore assistenza e la velocizzazione delle procedure è frutto di una mediazione. Mi hanno invitato a considerare il risultato della protesta e io me ne sono andato, a malincuore, ma in modo volontario. Speravo che l’Italia potesse riacquistare dignità dopo la vergogna che ha avuto il culmine in quel tremendo video. Ammetto di non aver ottenuto tutto quello che ritenevo importante e infatti tornerò presto a Lampedusa. Mi ha invitato anche il nuovo direttore del centro per ragionare rispetto a come poterlo gestire bene.

Come mai è stato solo in questa iniziativa? I parlamentari siciliani del suo partito erano informati?
«Come coordinatore dell’intergruppo ho come prima cosa sollecitato una comune iniziativa. Ma con le dinamiche del Parlamento si rischiava di ritardare di molti giorni ogni atto. Ho rilanciato una comunicazione a tutti i parlamentari del mio partito e ho posticipato due volte la partenza. Serviva immediatezza, mi rendo conto che era un sacrificio per tutti ma ognuno poteva farlo. Ad un certo punto, dopo le vergognose dichiarazioni del ministro Alfano, ho comunicato i miei orari e ho detto “andiamo”. Sono sceso a Lampedusa perché si doveva farlo, ho saltato anche il voto di fiducia ma non volevo certo escludere nessuno. C’era la possibilità di raggiungere rapidamente l’isola. Ora vorrei lanciare una due giorni in cui lì vadano anche i parlamentari eletti in Sicilia e i nostri consiglieri dell’Ars (Assemblea Regionale Siciliana), molti ancora non conoscono e sottovalutano questa situazione, ne hanno una informazione solo attraverso i giornali. Quella che va cambiata è una legislazione sbagliata e in parte anche razzista. In queste situazioni ce ne si rende conto direttamente».

Quando è partito aveva già deciso di fermarsi dentro?
«No. Certamente non volevo cavarmela con un comunicato stampa. Ma ero rimasto allibito da quanto detto da Alfano. Come si fa a dichiarare che i profughi del video si erano denudati per non fare la fila? All’arrivo poi ho trovato ancora i superstiti del naufragio del 3 ottobre, ho visto le condizioni degli altri e ho deciso di restare. Gli stessi operatori del centro mi sembravano totalmente spaesati tanto è che anche loro mi hanno ringraziato per essermi fermato. Io avevo il biglietto per ripartire in giornata ma non me la sono sentita di lasciarli lì».

Ed è servito?
«Al di là dei risultati ottenuti per me è già stato importante che sia, almeno per ora, saltato il sistema comunicativo che trasforma i profughi in clandestini, quindi in criminali. Oltre a Lampedusa si è parlato in quei giorni dei Cie, a partire da Ponte Galeria, in qualche maniera è uscito fuori il fallimento di una logica cattivista, quella per cui secondo Alfano “nei Cie ci sono solo delinquenti”. Io farò il possibile perché da questa vicenda si esca con alcuni impegni rispetto ai quali il mio partito si dimostri coerente. L’accoglienza va ripensata, i Cie vanno chiusi perché fallimentari, inutili ed inefficaci. Che serva insomma come uno stimolo, uno dei tanti utili a ripensare una nuova legge sull’immigrazione, magari partendo da quello che nel 2007 era la proposta Amato-Ferrero».

Un punto, spesso poco affrontato, dell’intero tema, è legato al circolo vizioso carcere-Cie. Chi è in galera o accetta il rimpatrio o, a fine pena, finisce in un centro.
«A Ponte Galeria ho incontrato un trattenuto, ex detenuto, uscito per buona condotta. Come intergruppo stiamo lavorando, in accordo col ministro Cancellieri, per un “congelamento” dei permessi di soggiorno in carcere, per chi non è responsabile di reati gravi. Non è giusto che chi ha scontato una pena non abbia una opportunità di reinserimento, come avviene, o dovrebbe avvenire, per ognuno».

Crede che ci siano spazi per accelerare questi cambiamenti?
«Mi prendo la libertà di dire ciò che penso. Entro la primavera, come partito politico, ci giochiamo tutta la credibilità su questi temi. Dobbiamo costruire una riforma coerente della legge sull’immigrazione per chiudere i Cie e giungere ad una nuova legge sulla cittadinanza. Tutto il partito sostiene questo con forza. Siamo disposti a portarla avanti con qualsiasi tipo di maggioranza. È una sfida aperta sui contenuti anche al M5S».

Lei coordina il gruppo inteparlamentare sull’immigrazione. Cosa ha prodotto questo gruppo sino ad ora? Cosa avete in agenda?
«Abbiamo lavorato molto per istruire dei percorsi ma ci sono chiare le difficoltà. Al rientro abbiamo programmato una riunione organizzativa per definire un sopralluogo di ogni tipo di centro. Un weekend in cui saremo nei Cie, nei Cara, nei Centri di accoglienza e in quelli per minori non accompagnati. L’intergruppo sarà il punto di partenza ma vogliamo coinvolgere i territori, i sindaci, le associazioni presenti. Sarà un modo per tenere alta l’attenzione. Poi intendiamo concentrarci sulla legge per la cittadinanza, che sarà al primo punto del nostro ordine del giorno e rapidamente a seguire, come dicevo, verso una nuova legge sull’immigrazione».

Stefano Galieni