Storie Migranti

Il sole non dimentica nessun villaggio

Gabriella Grasso - 13 Gennaio 2014

imagesPer consuetudine burocratica e semplificazione giornalistica li chiamiamo genericamente “migranti”. Come se fossero tutti uguali, una massa indistinta di esseri umani, senza nome né storia. Ma ognuno di loro, prima di essere un “migrante” era padre, madre, figlio, lavoratore.
Per restituire ad alcuni di loro la propria identità, la Caritas della Diocesi di Vittorio Veneto (Treviso), diretta da Roberto Camilotti, ha chiesto alle “volontarie della memoria” dell’associazione Medi@età (che sono state formate alla scrittura autobiografica dai docenti della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari) di aiutare 12 migranti a raccontarsi. Per scoprire come vivevano prima di intraprendere il viaggio, quali motivazioni profonde li hanno spinti ad attraversare il Mediterraneo, le difficoltà incontrate una volta giunti a Lampedusa (sono tutti sbarcati sull’isola siciliana nel 2011), che speranze hanno per il futuro. Così è nata un’incredibile occasione di confronto che prende la forma di un libro: Il sole non dimentica nessun villaggio a cura di Roberto Camilotti (Kellerman, 13 euro). Qui vi proponiamo alcune delle storie che vi sono contenute e i commenti delle “biografe”.

La vita di Sabrina, algerina, 42 anni, parte in salita. I suoi genitori non sono sposati e per di più appartengono a religioni diverse: musulmana la madre, ebreo il padre. Per questo motivo la nonna materna la affida alle cure di un’altra famiglia che la accoglie con affetto, ad eccezione dei due figli maggiori che, alla morte dei genitori, le rendono la vita difficile. Lei riesce, lavorando, a costruirsi un’autonomia economica, ma le crescenti difficoltà e le delusioni (sta per sposarsi, ma il matrimonio salta quando dai suoi documenti viene fuori che ha sangue ebreo) la spingono a tentare la sorte e attraversare il Mediterraneo. Ci prova tre volte, alla terza ci riesce e ora vive in Italia. «Prima di incontrarmi, Sabrina si era preparata uno schema della propria vita, ma poi, quando si ha iniziato a raccontare, i suoi pensieri si sono messi a scorrere in libertà, senza ordine cronologico, e per questo ricostruire la sua storia non è stato facile», ricorda Marisa Canella, 70 anni, la “biografa” che si è occupata di lei.

Marisa si è fatta carico di accogliere anche il racconto di un ragazzo di 22 anni che ha chiesto di essere chiamato Il Piccolo Viaggiatore Senegalese. Dopo l’uccisione del padre per mano dei ribelli della Casamance (che da tempo chiedono l’indipendenza, ndr), il Piccolo Viaggiatore capisce di essere in pericolo di vita e, in compagnia di uno zio, si mette in cammino: Mali, Burkina Faso, Niger, Libia. Infine, la traversata: «Io non ho mai pensato di venire qua, non avevo mai visto l’acqua grande, anche in Senegal c’è acqua, ma io abitavo in campagna», racconta lui in italiano. Commenta Marisa: «Mi ha parlato con grande spontaneità, solo con un po’ di pudore quando il racconto si faceva più doloroso. Ripeteva spesso la frase: “Così è la vita, se Dio vuole” e ho capito che questo fatalismo fa parte della sua cultura».

Samuel, dal Ghana, ha 5 anni quando sua madre muore e 13 quando muore suo padre, che era un re. Dopo un breve periodo trascorso presso uno zio, inizia a girovagare, accolto e aiutato di volta in volta da donne che si improvvisano madri surrogate. Arriva in Nigeria. E poi in Libia. Non pensa mai di tornare a casa: «Nella nostra cultura c’è la religione tradizionale secondo la quale noi veneriamo spiriti. Mio padre, essendo il re, era il gran sacerdote di questa religione. Quando il padre muore, i figli diventano a loro volta i sacerdoti di questa religione che, essendo molto spirituale, comporta anche sacrifici umani e di animali. Quando mio padre è morto sono diventato io il re. E io, proprio perché la mia mamma mi ha insegnato alcune cose buone, da questo volevo scappare». Sua madre, infatti, si era allontanata dall’animismo e avvicinata al cattolicesimo. Nel suo peregrinare il Piccolo Viaggiatore sperimenta furti, percosse, la prigione. Poi il viaggio verso Lampedusa. La sua narrazione si conclude così: «Importante per me è non giudicare una persona se non la conosci. Io vivo questa difficoltà: essendo straniero mi sento giudicato senza che le persone mi conoscano». La sua storia l’ha ascoltata e ricostruita Rita Da Re, 67 anni: «Io non capisco l’inglese, quindi aspettavo la traduzione. Ma Samuel parlava a raffica e l’interprete non aveva il coraggio di interromperlo. Così per un’ora mi sono limitata a osservarlo: era sereno, solo di tanto in tanto tradiva qualche emozione. Quando mi sono state tradotte le sue parole, non riuscivo a credere che avesse raccontato con tanta tranquillità tutte le sofferenze che aveva patito. Ho capito che per lui il dolore era diventato normale. Non avere genitori che si occupassero di lui, vedere intorno a sé la guerriglia, inventarsi di volta in volta stratagemmi diversi per nascondere il denaro per non essere derubato. Tutto normale. Per lui vivere ha sempre significato sopravvivere». Chiedo a Rita quanta curiosità ha suscitato, presso i suoi amici e conoscenti di Vittorio Veneto, questa sua esperienza. «Pochi mi hanno domandato di leggere il libro. La reazione spesso è stata: “Chissà quante bugie ti ha raccontato questo tizio, chissà quante cose si inventano questi qui!”. La verità è che la diffidenza e i pregiudizi sono difficili da cancellare se non conosci l’altro, se non lo incontri e non ti avvicini davvero alla sua storia. Io ho voluto partecipare a questo lavoro perché spero che il libro aiuti ad aprire gli occhi a molta gente. Ma, soprattutto per quel che riguarda le persone della mia età, non è facile».

Di fatto Il sole non dimentica nessun villaggio è un’operazione narrativa e umana di grande valore. Ha la prefazione di Duccio Demetrio (fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari) e l’introduzione di Fulvio Vassallo Paleologo (docente di Diritto all’Università di Palermo e collaboratore di Corriere delle Migrazioni).

Gabriella Grasso