Regno Unito

Per Isa Muazu non c’è lieto fine

Sabrina Tucci - 13 Gennaio 2014

513987«Mi sento devastato. Preferirei morire che tornare indietro. Se potessero prendere il mio corpo e seppellirlo, questa sarebbe l’unica cosa. Io non torno indietro, ti avviso. Lì non c’è niente per me» (Isa Muazu, richiedente asilo).

Isa, invece, è dovuto tornare indietro, dopo quasi 100 giorni di sciopero della fame e nonostante la mobilitazione della società civile.  Questa è la sua storia ed è anche la storia di una protesta contro il sistema di detenzione dei richiedenti asilo nel Regno Unito. Isa è Nigeriano, ha 45 anni e dal 2007 si trova in Inghilterra, in possesso di un valido titolo di soggiorno. Allo scadere del visto, troppo spaventato all’idea di tornare in Nigeria, decide comunque di fermarsi, anche da irregoalre. Isa è in fuga dal gruppo fondamentalista islamico Boko Haram che lo vuole tra i suoi ranghi: teme di essere ucciso dai membri dell’organizzazione che ha già riservato questo trattamento a due suoi famigliari. A luglio del 2011 chiede, per questo, protezione internazionale. Quasi subito viene rinchiuso nel Centro di Rimozione di Harmondsworth, come previsto dalle regole del Detained Fast Track, sistema basato sulla gestione all’interno di strutture di rimozione di quelle richieste di asilo considerate di semplice e rapida risoluzione.

Isa soffre di psicosi e depressione, oltre ad essere affetto da epatite B, varie ulcere allo stomaco e problemi di fegato. È a causa del cibo di infima qualità servito a Harmondsworth e dell’incapacità della struttura di rispondere in modo adeguato le sue ampie esigenze mediche che ha inizio il suo sciopero della fame, presto trasformatosi in un atto politico contro il trattamento inumano dei richiedenti asilo e la propria detenzione. Isa non è mai stato detenuto prima, non ha mai commesso un crimine, non ha mai rappresentato una minaccia al Regno Unito.

Ma la sua richiesta di protezione internazionale viene rifiutata e Isa si ritrova tra le mani un piatto molto meno appetibile di quello servito nella cantina di Harmondsworth: la deportazione. Il trascorrere dei giorni vede la sua salute mentale e fisica deteriorarsi e vari dottori certificano l’incompatibilità tra le sue condizioni e la detenzione. Isa perde la vista, ha problemi respiratori, dolori al petto e non riesce a stare seduto senza aiuto. È allarme e lo staff di Harmondsworth viene invitato a prepararsi al peggio: Isa è vicino alla morte, dopo uno sciopero della fame durato più di 100 giorni.

Nonostante ciò, l’Home Office, il dipartimento ministeriale del governo del Regno Unito responsabile per l’immigrazione, la sicurezza e l’ordine pubblico, si oppone al suo rilascio. La High Court of Justice e la Corte d’Appello dell’Inghilterra e del Galles dichiarano legale la detenzione di Isa, affermando che l’Home Office ha tutto il diritto di procedere al suo rimpatrio. Il 29 novembre Isa viene effettivamente messo su un aereo privato diretto verso la Nigeria. Ma, dopo venti ore di volo, viene fatto rientrare nel Regno Unito, ufficialmente per problemi organizzativi tra i due governi. L’Home Office, infatti, non avrebbe fornito tutta la documentazione necessaria a Lagos. La successiva sfida legale dei suoi avvocati dinanzi l’Upper Immigration Tribunal di Londra non riesce però a evitare la deportazione: il 17 dicembre Isa viene rimosso dal Regno Unito.

La decisione di non liberarlo e di deportarlo nonostante il rischio di morte violano il diritto internazionale. La detenzione di persone con problemi di salute viola l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: “Nessuno dovrebbe essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Mentre all’articolo 33 della Convenzione dei Rifugiati leggiamo: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.

Che un governo sia disposto a mantenere un uomo all’interno di un centro di detenzione dove rischia la morte per sciopero della fame e che arrivi a deportarlo in un Paese in cui rischia la vita per il rifiuto di unirsi a un gruppo politico-religioso, dice molto sulla cultura di diffidenza nei confronti di quanti rifuggono istanze di persecuzione nel proprio paese di origine e nei confronti degli immigrati in generale. Il Sottosegretario di Stato per gli Affari Interni, Lord Taylor di Holbeach, lo scorso quattro dicembre ha affermato: «Signori, il rifiuto di mangiare o bere non significa automaticamente che una persona detenuta per ragioni legate all’immigrazione debba essere liberata».
Il giudice Justice Collins che ne ha rifiutato il rilascio ha inoltre aggiunto: «Questo è un caso preoccupante ma è importante sottolineare che coloro che utilizzano lo sciopero della fame per manipolare la loro posizione non riusciranno nel loro intento, a patto che dispongano delle proprie capacità mentali».

Sabrina Tucci