Palermo

A proposito di ZetaLab

Stefano Galieni - 13 Gennaio 2014

L’articolo Sotto il Baobab, scritto da Daniele Barbieri e che raccoglieva il punto di vista dei profughi sudanesi rispetto alla chiusura del Laboratorio Zeta di Palermo, ha suscitato varie mail e telefonate di protesta che non sono state inviate all’autore o al direttore, bensì a Stefano Galieni che ha ritenuto opportuno intervenire con le riflessioni che seguono:

«Rispondo non in quanto autore dell’articolo contestato ma perché richiestomi dai tanti e dalle tante con cui ho seguito l’esperienza forse unica del Laboratorio, partecipando negli anni ad iniziative, incontri, presentazioni di libri e organizzazione di manifestazioni antirazziste. Sarebbe stato più giusto e corretto che tali critiche venissero inviate all’autore del pezzo o al direttore della testata o quantomeno alla readazione. Ma so bene che la vicenda in questione resta per una città difficile come Palermo e per le persone che tentano di costruire forme diverse di socialità, una ferita aperta e comprendo anche le ragioni che hanno spinto le persone coinvolte a rivolgersi a me, come persona che tale realtà l’ha per lungo tempo condivisa. A mio modesto avviso è utile anche a volte stravolgere le modalità relazionali che esistono quando si diviene oggetto di informazione ma solo se e quando ciò serve a problematizzare un fatto e portarlo a divenire pretesto per una riflessione di carattere più generale. Facciamo un passo indietro. Della chiusura di quello che familiarmente veniva chiamato “Zetalab” aveva già scritto la nostra Amalia Chiovaro e per scelta, con l’intenzione di non innescare ulteriori polemiche, aveva evitato di dire che le difficoltà di convivenza che avevano determinato l’abbandono dello spazio si erano tramutate in tensione pura, sfociata anche in vere e proprie aggressioni denunciate ai danni degli attivisti del Laboratorio. E se ad aggredire erano stati – come pare – altri italiani, il rapporto con una parte dei giovani sudanesi che erano ospitati nei locali del centro si erano via via sempre più deteriorati. Nelle tante iniziative a cui ho partecipato negli anni scorsi, sovente invitato dai compagni del Laboratorio, ho sempre avuto modo di notare (e di questo spesso si è discusso) come i rifugiati sudanesi non risultassero quasi mai coinvolti direttamente nelle attività sociali. Partecipavano con interesse ai corsi di italiano, erano presenti spesso alle manifestazioni antirazziste che si costruivano nella città, ma in quel luogo parevano sopravvivere due mondi che solo raramente sceglievano di comunicare. Sarà stato per deficit di chi, fra gli attivisti del Laboratorio, cercava di costruire iniziative comuni. Sarà stato anche perché la necessità di risolvere i bisogni primari e di orientarsi nella dimensione italiana era più importante per i rifugiati delle iniziative da centro sociale. Sarà perché quello che lentamente è emerso, la virulenza finale ne è prova, è stata una reciproca incompatibilità, sistemi valoriali che non sono riusciti a connettersi. I legami si rinsaldavano al momento del bisogno (come ogni volta che l’amministrazione minacciava o effettuava uno sgombero) ma poi si affievolivano nella quotidianità. Un tema che dovrebbe far riflettere se si tengono presente, ad esempio, le tante occupazioni di case diffuse sul territorio nazionale, soprattutto nelle metropoli, che vedono insieme autoctoni non abbienti, migranti, rifugiati, richiedenti asilo provenienti da mezzo mondo. L’articolo che seguiva (il punto di vista di alcuni sudanesi) che giustamente pubblicava il nostro Daniele Barbieri è stato a mio avviso utile a sentire un’altra campana. I cittadini sudanesi intervistati però dichiaravano di non comprendere le ragioni che avevano portato i loro, più o meno coetanei, autoctoni ad andarsene e anzi accusavano questi di aver proposto di alzare un muro per separare in due l’edificio che li ospitava. Eppure, in una dinamica che può apparire incomprensibile a chi è fuori da tali meccanismi, poco tempo prima gli stessi avevano diramato un comunicato con cui accusavano gli “italiani” di averli usati per i loro interessi, di aver fatto carriera politica sulle loro spalle, di aver speculato in nome loro, di aver utilizzato i locali del cento per bagordi orgiastici. Una percezione dell’altro in cui sembra non esserci stato spazio per un minimo di confronto, neanche dopo anni di convivenza, in condizioni difficili ma di convivenza. Ora al di là del fatto che nessuno degli attivisti del Laboratorio e di coloro che hanno tentato di portare le proprie competenze in tale spazio ne ha tratto benefici né personali né di immagine, almeno che non si vogliano considerare benefici le denunce per aver impedito gli sgomberi. E al di là del fatto che se non si è riusciti in tanti anni a costruire una convivenza produttiva, questo è un danno che riguarda tutti i soggetti coinvolti. Al di là anche del parere senza dubbio parziale di chi scrive, che ha avuto modo di vedere l’impegno prodigato negli anni al Laboratorio, di criticarne alcune scelte e di apprezzarne altre, ma di dover comunque riconoscere il valore propositivo dell’impegno, restano però di fondo due criticità. Della prima si è già detto, di come a volte la costruzione di spazi di convivenza interculturale non riescano a tradursi in incontro vero e scambio reciproco. La seconda, che colpisce una storia composita dei movimenti antirazzisti nella loro possibilità di divenire efficaci, è quella che vede prevalere all’interno divisioni e risentimenti, rotture inspiegabili e frammentazione perpetua. Al tessuto politico rappresentato nelle istituzioni, di questo interessa poco, anzi, per certi versi tale frammentazione evita di produrre la necessaria spinta sociale che serve a determinare cambiamenti. A chi di tale tessuto è parte, fa perdere energia e credibilità, crea sofferenza anche personale, diviene respingente, stanca e allontana, risulta incomprensibile e provoca elementi forti di autoreferenzialità speculari a quelli del sistema politico. Con la sottile differenza che la politica istituzionale determina i destini di una città o di un Paese, vicende di questo tipo no».

Stefano Galieni