Religione e integrazione

Islam metropolitano

Stefano Galieni - 13 Gennaio 2014

LM22DSC_8971Settecentocinquanta luoghi di culto ufficialmente censiti per (almeno) un milione e settecentomila fedeli. Sono i numeri dell’Islam italiano, fenomeno complesso, interculturale e in crescita. Un virus, secondo il presidente della regione Lombardia Roberto Maroni (che lo ha definito in questi termini  in un tweet, subito dopo la bocciatura del Pgt di Brescia, determinata dall’assenza di luoghi di culto non cattolici, da parte del Tar). «In un certo senso Maroni ha ragione», dice provocatoriamente Alessandra Caragiuli, sociologa autrice de L’Islam metropolitano Edizioni Edup. «In pochi anni i luoghi di culto sono aumentati in Italia con la velocità di un virus. Hanno innervato numerosi Comuni e territori in cui vivono forti concentrazioni di cittadini musulmani. Ma le sue ragioni finiscono qui. Perché le conseguenze sono state tutt’altro che malefiche. Anzi. Moschee e dintorni si sono rivelate, in molti casi, strumenti di inclusione e integrazione positiva». L’islamofobia si diffonde anche grazie all’assenza di studi puntuali, in grado di dare informazioni corrette. Il lavoro di Caragiuli va nella direzione opposta. In Italia c’è una significativa migrazione musulmana. Ci sono persone poi che “riscoprono” la fede una volta arrivate qui. Ci sono, infine, degli italiani che si convertono. Tutto questo ha determinato una grande trasformazione sociale e urbana in alcuni quartieri, soprattutto nelle metropoli. Si tratta di una trasformazione che riguarda ormai tutto il territorio nazionale e che va letta nella sua interezza. «L’Islam, come molte volte è stato detto, non è un monolite. Si differenzia molto in base ai Paesi di provenienza e in molti casi si articola attraverso confraternite sufi (tra i senegalesi, per esempio, troviamo soprattutto la Tijaniyya e la Muridiyya, ma ci sono anche Qadiriyya e l’ordine dei Layenne, ndr). I luoghi di culto non servono solo a pregare, garantiscono sostegno e servizi, che vanno oltre i singoli soggetti interessati. Questo, per inciso, sta succendo in tutta l’Europa e non solo a Roma, dove si è focalizzata la mia ricerca».

Già, la capitale. Possiamo provare a raccontarla nelle sue connotazioni islamiche?

«Roma, come tutte le capitali europee, è divenuta luogo di meticciato con una morfologia plurale estremamente interessante. Il primo luogo di culto noto fu quello della “Ex Pantanella” (uno stabile occupato che nel 1990 divenne vera e propria comunità per almeno 1.500 migranti), ora ce ne sono tanti, anche in diversi comuni dell’hinterland. Si è realizzata anche la Grande Moschea, l’unica, in Italia, ad avere una spianata e i minareti. Ora, nei quartieri popolari con forte densità di cittadini di provenienza da paesi musulmani, ci sono grandi e piccoli luoghi di culto e questo ha permesso di superare il tradizionale rapporto fra centro e periferie. Ogni luogo di culto è divenuto il “centro” attorno a cui sorgono negozi di prodotti alimentari tipici di ogni paese, macellerie halal. E non solo circuiti commerciali. La concentrazione di comunità attorno al luogo di incontro permette anche l’instaurarsi di rapporti di solidarietà e di aiuto per le persone in condizione di fragilità. Insomma quei centri, a volte garage, altre volte spazi commerciali che hanno cambiato volto e che per brevità chiameremo moschee, hanno disegnato una una città, nella città, che è positivamente policentrica. Attraversano tutto l’asse casilino, appio e tuscolano (tre vie consolari), ma raggiungono quartieri dormitorio delle varie periferie e Comuni dell’hinterland dove il costo di un affitto è minore e vivono molti  pendolari che lavorano a Roma, spesso migranti».

A Roma, diversamente da quanto è accaduto soprattutto nel Nord, non sembra aver attecchito il rifiuto popolare per le moschee

«Bisogna partire da alcuni dati. A Roma e provincia vivono persone provenienti da oltre 190 Paesi diversi. La diversità di fedi e di culti fa parte della tradizione millenaria della città che si è solo acuita con l’aumento dell’immigrazione dai paesi a maggioranza musulmana. Per questo è divenuta multiculturale e un po’ meticcia come molte metropoli europee. L’Islam a Roma è la seconda religione per numero di praticanti e questo ha fatto sì che anche coloro che professano altre fedi si siano sentiti in diritto, vedendo i luoghi di culto islamici, di aggregarsi. A Tor Pignattara (quartiere romano ad alta densità migrante) è sorto ad esempio un tempio Sick per chi proviene dal Punjab. Anche il mondo cattolico e le sue associazioni di volontariato hanno favorito il dialogo interreligioso. Si è compreso il valore di una integrazione culturale multi confessionale. Quella che invece si è registrata è stata più una xenofobia istituzionale che popolare. Le istituzioni si sono spesso frapposte, anche con la burocrazia. Ci sono state battute di arresto dovute semplicemente alla destinazione d’uso dei locali indicati a divenire  luoghi di culto e a frapporre ostacoli sono stati i rappresentanti, spesso isolati, di alcune forze politiche. Agli autoctoni poco importa quali siano le fedi professate, al massimo sono infastiditi dai grossi assembramenti non controllati. Quello che molti musulmani vorrebbero è un quadro di intesa normativa con lo Stato per superare questi ostacoli proprio senza creare problemi alla cittadinanza».

Attorno ai centri, fiorisce anche una forte attività economica…

«Sì, i negozi costituiscono un aspetto positivo. Si tratta però di imprese che creano non solo circolazione di denaro ma anche alimentano le rimesse, permettono di far crescere il circuito del lavoro autonomo. È una condizione lavorativa favorevole all’appropriazione di spazi in cui poter esercitare liberamente il proprio culto. L’imprenditoria musulmana è una risposta autonoma dei fedeli in condizioni di vuoto normativo, quando negli altri luoghi di lavoro non c’è riconoscimento del diritto di esercizio della preghiera. Non c’è solo il riscatto dalla condizione di lavoratore dipendente ma anche la possibilità di mettere in moto i meccanismi di self financig con cui si finanziano, a livello internazionale, i festival delle comunità, il mantenimento o l’acquisto dei centri, i servizi che lo Stato non offre».

Ma si tratta di spazi che mettono anche in moto meccanismi di solidarietà interna

«Sì, perché si garantiscono servizi alla comunità, dalle pratiche amministrative alla risoluzione di dispute, legati a problemi societari. Molti diventano luoghi di produzione di sapere ma anche di scambio economico. Si realizzano progetti di aiuto di fronte a calamità naturali nei paesi di origine e si interviene a sostegno di situazioni comunemente ritenute critiche come a Gaza, raccogliendo e inviando fondi. Un’esperienza interessante è quella di Ladispoli, un Comune costiero della provincia di Roma a forte presenza senegalese. Li si è costruita una “Casa Biana” la Darau Salam (casa della pace). Si tratta di una palazzina di tre piani. Il pian terreno è un luogo di preghiera, nei piani superiori ci sono stanze che servono come ostello per i bisognosi, non solo della comunità senegalese, che non sanno dove poter dormire. Una moschea che diventa insomma centro autogestito di accoglienza. Altro esempio. A Centocelle (altro quartiere romano) è in corso una esperienza molto positiva. La moschea Al Huda (La Retta) è nata all’inizio degli anni Novanta. Era un piccolo locale in cui affluivano tantissime persone. E c’erano problemi con il quartiere che non vedeva di buon occhio questa grande concentrazione in poco spazio. Problemi sanitari e di sicurezza per gli stessi frequentatori. Ora i fedeli hanno acquisito uno spazio di 2.000 metri quadrati. Funziona attraverso l’auto organizzazione che ha portato anche al superamento dei problemi logistici. Il centro è diventato ancora più frequentato in seguito alle “primavere arabe”e all’affermazione di Ennahda

L’aumento dei luoghi di culto ha evidenziato esperienze positive ma altre problematiche.

«È il caso del gruppo iraniano che ha realizzato una sala sciita in un quartiere della via Tuscolana. Il centro funzionava, poi ha risentito dei contesti internazionali, è stato messo sotto sopra ad inizio 2010 dal movimento di protesta Onda Verde. I tumulti contro Ahmadinejad, crearono molte difficoltà all’esistenza stessa del centro. Le tante confraternite presenti a Roma e nell’hinterland sono dimostrazione insomma di vivacità, pluralismo anche problematico ma che hanno modificato il tessuto sociale della città. L’Islam è ormai la seconda religione e non è solo di migranti ma anche di nati in Italia e di convertiti. Come tale andrebbe considerata se ci fossero istituzioni meno miopi».

Possiamo ritornare sul concetto di pluralità dell’Islam?

«Una conoscenza superficiale porta a vedere il mondo musulmano come monolitico. Invece ci sono infinite differenze. Non solo quella più nota fra sciiti e sunniti, ma un insieme di confraternite come i sufi, di approcci alla fede che risentono molto dei paesi di provenienza e che rendono questo terreno di ricerca molto articolato. A Roma, oltre alla Grande Moschea, ci sono 28 sale di preghiera e sono molto più che sufficienti nel rappresentare i diversi orientamenti, ma la presenza musulmana è in continuo fermento. Ma ci sono esempi meno noti e in continua espansione come quello dei missionari tablighi».

Di cosa si tratta?

«Di una vera e propria rete internazionale che sta operando, opera di re islamizzazione nella diaspora. Si tratta, in Italia, di almeno 13 mila persone con una visione molto conservatrice dell’Islam. Con una organizzazione estremamente precisa e strutturata cercano di riportare coloro che si sono allontanati dalla religione proponendo modelli formalmente e culturalmente legati ai paesi di provenienza. Sono nati in India fra gli anni Trenta e Quaranta, ma oggi stanno crescendo soprattutto in Europa. Non cercano di fare proselitismo ma trasmettono un visione totalizzante della religione e cercano di riportare sulla “retta via” coloro che non praticano più, chi è finito in condizioni di marginalità e devianza. Sono veri e propri missionari erranti, in Italia, provenienti soprattutto dal Bangladesh, dal Pakistan e dal Maghreb. Sono interessanti perché così come considerano fondamentale una interpretazione letterale dei princìpi religiosi evitano di entrare nelle contese politiche. Insegnano e pregano in nome di una pace universale e del rifiuto della violenza, non vogliono criticare le legislazioni europee, anche nei loro aspetti repressivi, ma mirano ad entrare nella vita quotidiana delle persone per riorentarla».

Ma è una reislamizzazione che incontra successo

«Certo, perché quella che è in crisi è la cultura laicista. Il modello laico è percepito per molti musulmani estraneo alla tutela dei diritti. Vivono i nostri paesi come ostili e l’Islam diviene una risposta nuova e protettiva. Sono aumentati i processi di conversione e di ritorno ad una religione rigidamente praticata che trova nella sharia la fonte primaria del diritto. È nato nei quartieri delle nostre città un diritto parallelo a quello statuale, a cui ci si appella. Nascono informali consigli dei saggi che risolvono i problemi. Questo accade anche in uno stato di isolamento e con forti responsabilità istituzionali accompagnati dalla inospitalità di questo Paese. Ho incontrato molte persone che hanno una propria storia laica, anche nel paese di provenienza, legato all’essere eredi di un passato post coloniale. Gli stessi ora vivono una fase di ritorno e di reislamizzazione nel paese di approdo. Il mito da sfatare è che non arrivano i musulmani a convertirci e ad imporre la loro fede, ma arrivano persone che ritrovano nell’Islam un proprio sentire comune e su questo si rincontrano. Il rapporto più stretto con la propria appartenenza riemerge poi spesso con il cambio di status. Quando due persone decidono di mettere su famiglia, già il percorso che dal matrimonio porta a dover definire il tipo di educazione da impartire ai figli costringe ad interrogarsi. Come li si educa in un Paese che non è musulmano? I modelli formativi creano conflitti anche fra genitori e figli, coinvolgono le cosiddette “seconde generazioni” con risultati contraddittori. Da una parte la ricerca di maggiore libertà dei figli stessi, che si traduce nel riconoscersi totalmente nei modelli del Paese ospitante, in cui magari sono nati, dall’altra – è il caso speculare – di giovani che ritrovano nell’Islam una propria identità».

Una reislamizzazione che si concentra in divieti ed in prescrizioni come il velo

«Il movimento missionario, che è quello più rappresentativo di un Islam ultraconservatore, considera molto importante il volto coperto. Anzi, considerano fondamentali alcuni aspetti estetici e le pratiche vestiarie integrali. Per gli uomini, ad esempio, la barba deve essere estremamente curata e lunga almeno un palmo. Ma il velo in realtà non è percepito dalle donne che ho incontrato come una questione sociale importante. Per le donne è più importante l’integrazione sociale delle adolescenti, la restrizione dei percorsi di studio, soprattutto secondari, il divorzio che come dicevo è in potestà al marito e che solo la comunità può sancire. La vita concreta insomma, che le porta a veder crescere, soprattutto le proprie figlie, in un contesto diverso da quello tradizionale».

Cosa intende col termine “conservatore”?

«Una realtà in crescita e non solo in Italia. Il dibattito degli studiosi europei col mondo dei praticanti dovrebbe aprire una discussione lunga in merito. A mio avviso, si tratta di una visione dell’Islam che non vuole, come erroneamente si racconta, portare la sharia in occidente, ma che si impone grazie alle pratiche informali, i tribunali dei saggi che decidono la correttezza dei comportamenti dei singoli e l’esito delle controversie familiari. In Inghilterra questi temi sono affrontati con la multiculturalità, da noi restano nascosti. Insomma, di fronte all’informalità e all’assenza di norme, molti migranti musulmani reagiscono utilizzando i canoni tradizionali, dei paesi di origine, come strumenti per garantire la coesione sociale e comunitaria. In pratica, si tende a riprodurre in Italia codici comportamentali e stili di vita che garantiscono il legame col Paese di provenienza. Anche qui parliamo di esempi concreti: un tema delicato come il divorzio in Italia non viene sufficientemente regolato dal diritto civile che dovrebbe garantire entrambi i coniugi, ma attraverso le pratiche comunitarie in cui le donne non sono tutelate. Invece ci sarebbe bisogno di norme che tutelino le persone senza dover vietare.»

Su quali aspetti si dovrebbe intervenire secondo lei per superare le questioni critiche?

«Ad esempio il legislatore, di intesa con le comunità, dovrebbe far sì che la formazione degli imam avvenisse in loco. La maggior parte di quelli che ho intervistato, si sono formati nei paesi di origine. Vero che il radicamento in Italia è recente e che le comunità sono ancora relativamente giovani, ma bisogna rapidamente dotarsi degli strumenti necessari per staccare l’Islam dai paesi di provenienza. Altro punto critico sono le scuole. Perché l’apprendimento dell’arabo deve avvenire nelle moschee? Quelle sono scuole importanti di cultura islamica ma occorrono istituti deputati pubblici. Dovrebbe accadere come in Germania che come seconda lingua, nella scuola pubblica, si può scegliere l’arabo. Io vedo una forte pericolosità nel fatto che, ad esempio, per chi arriva dai paese dell’Asia Meridionale, la moschea rappresenti la sola offerta formativa».

Stefano Galieni