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Nonostante la Bossi-Fini…

Sergio Bontempelli - 20 Gennaio 2014

immi-620x264Sergio Briguglio si occupa di immigrazione dalla fine degli anni Ottanta: che – riferendosi all’Italia – è un po’ come dire da sempre… È, nel nostro Paese, uno dei maggiori conoscitori della materia, ma non fa capo ad associazioni, movimenti o gruppi organizzati. Un “esperto indipendente”, che offre supporto e consulenza a una miriade di operatori, associazioni, sportelli e studi legali sparsi nella penisola. La sua pagina web è un punto di riferimento obbligato per tutti gli operatori del settore. L’“Archivio Briguglio” raccoglie da un paio di decenni tutti i documenti rilevanti in materia (circolari, disegni di legge, normative, appelli, dossier…), e rappresenta oggi la “memoria storica” del dibattito sulle migrazioni. Il suo approccio – ispirato ad una cultura dell’accoglienza, ma anche ad una grande concretezza – lo ha portato spesso ad assumere posizioni “fuori dal coro”.

Mentre tutto il mondo politico “progressista” – chiamiamolo così – si accalora nel proporre l’abrogazione della legge Bossi-Fini, lei sostiene che non è questo il vero problema. Qual è allora?
«Il fatto è che la Bossi-Fini è una legge del 2002 che ha modificato parzialmente il Testo Unico sull’immigrazione varato con la legge Turco-Napolitano, nel 1998: da quando è nato, però, il Testo Unico è stato modificato da una cinquantina di leggi diverse. Delle norme approvate con la Bossi-Fini, poche sono ancora in vigore. Molte delle norme che il mondo politico progressista vorrebbe modificare sono state introdotte, in realtà, da leggi che con la Bossi-Fini non c’entrano nulla. Alcune, poi, erano state introdotte proprio dalla Turco-Napolitano, figlia dello stesso mondo progressista… Insomma, il riferimento alla Bossi-Fini è per lo più figlio di una crassa e preoccupante ignoranza in materia».

Quali sono, a suo avviso, le riforme più urgenti da introdurre in materia di ingresso dei cittadini stranieri e che potrebbero essere realizzate anche in presenza della Bossi-Fini?
«Occorre riformare innanzi tutto le disposizioni che impongono, come condizione per l’ammissione in Italia di un lavoratore straniero ancora all’estero, l’esistenza di un contratto di lavoro già stipulato prima ancora della partenza. Soprattutto per i lavori a bassa qualificazione (per esempio, la collaborazione domestica), è impensabile che un contratto venga stipulato “a distanza”, senza che datore di lavoro e lavoratore abbiano avuto modo di incontrarsi e conoscersi sul posto. Si tratta cioè di introdurre la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro.
Andrebbe anche facilitato l’ingresso per ricongiungimento famigliare, allentando il controllo sui requisiti relativi alla disponibilità, da parte dello straniero che voglia far venire in Italia i famigliari, di reddito e alloggio. A condizione che quel nucleo non gravi sull’assistenza pubblica, si dovrebbe riconoscere la libertà di scegliere ciò che è meglio per la tutela dell’unità famigliare: se una famiglia numerosa accetta – poniamo – di vivere in un appartamento piccolo, pur di poter vivere unita, che interesse ha la collettività ad interferire in questa scelta?»

Ha scritto anche che oggi sarebbe urgente introdurre piccole modifiche alla normativa attuale. Quali?
«Vedo molte correzioni capaci di produrre il miglioramento della condizione di vita degli stranieri e, allo stesso tempo, della società che li ospita.
In materia di lavoro, penso soprattutto all’ammissione dei lavoratori stranieri ai concorsi pubblici, a parità con i cittadini comunitari. Penso anche alla possibilità di convertire in permesso per lavoro un titolo di soggiorno diverso, quando lo straniero, presente in Italia per altri motivi (incluso il turismo) abbia trovato un’occupazione.
Riguardo al permesso di soggiorno, il suo rinnovo dovrebbe avere, in assenza di elementi che facciano ritenere lo straniero pericoloso per la sicurezza pubblica, un carattere sostanzialmente automatico. L’amministrazione potrebbe poi eseguire i controlli che ritiene opportuni, e revocare il permesso in caso di accertata mancanza dei requisiti.
Dovrebbe essere consentito il rilascio di un permesso per motivi umanitari nei casi in cui uno straniero agisca a tutela di un diritto fondamentale (per esempio, in sede giudiziale per il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro in nero o per il recupero delle retribuzioni non corrisposte). Un permesso del genere dovrebbe essere rilasciato, su istanza delle autorità scolastiche o dei servizi sociali, anche ai minori che vivano con i genitori illegalmente soggiornanti: paradossalmente, oggi questi minori sono meno tutelati dei minori stranieri non accompagnati.
Sarebbe anche opportuno istituire un permesso di soggiorno a tempo indeterminato per categorie che meritino una speciale considerazione: studenti particolarmente brillanti, stranieri altamente qualificati, persone che abbiano dimostrato un alto grado di integrazione o che soggiornino in Italia da un tempo così lungo da rendere improponibile il loro rimpatrio, e così via.
In materia di repressione dell’immigrazione illegale, si dovrebbe, nello spirito della direttiva dell’unione europea sui rimpatri, limitare il ricorso alla detenzione nei Cie ai casi in cui lo straniero da allontanare rifiuti di collaborare alla propria identificazione e, quindi, all’individuazione del paese di destinazione. Non si dovrebbe cioè dar luogo a detenzione nei casi in cui la mancata collaborazione sia da ascrivere alle autorità del paese di appartenenza dello straniero.
Converrebbe, infine, investire risorse nei progetti di rimpatrio assistito (condizionato alla effettiva collaborazione dello straniero) piuttosto che nella detenzione nei Cie, i cui costi possono arrivare oggi fino a trentamila euro per straniero detenuto, ed astenersi del tutto dall’adottare provvedimenti di espulsione nei casi in cui lo straniero, a dispetto della sua condizione di soggiorno illegale, risulti positivamente inserito nel tessuto sociale».

In un articolo per la Voce.info, ha recentemente scritto che l’ingresso per ricerca di lavoro – richiesto a gran voce, e da anni, dal mondo associativo democratico – è già previsto per i cittadini comunitari. Può spiegarci meglio?
«I cittadini dell’Unione europea possono oggi circolare liberamente negli altri Stati membri per periodi di durata a tre mesi. Durante questo soggiorno breve, sono liberi di cercare lavoro e, se lo trovano, possono stabilirsi stabilmente nello Stato membro in cui si sono trasferiti. Questo crea ricchezza per l’Unione europea, perché permette l’allocazione ottimale delle risorse umane».

Secondo lei, sarebbe possibile far valere queste norme anche per i cittadini non comunitari?
«La principale differenza tra i due gruppi sta nella diversa condizione economica dei paesi di provenienza: liberalizzare l’ingresso per i cittadini di paesi terzi (cioè non appartenenti all’Unione europea) esporrebbe l’Italia a un flusso troppo intenso per essere gestito adeguatamente. Per l’ammissione di questi lavoratori, allora, bisognerebbe introdurre dei correttivi.
Gli ingressi potrebbero essere limitati numericamente, in base alle capacità di ricezione delle diverse regioni. Potrebbero essere poi condizionati alla registrazione delle impronte digitali e di una copia del passaporto, per una identificazione immediata dello straniero, e al deposito vincolato (da parte dell’interessato o di un garante) di un ammontare di risorse sufficienti al sostentamento del lavoratore per il periodo di ricerca di lavoro e per l’eventuale viaggio di ritorno.
In questo modo, in caso di fallimento dell’avventura migratoria individuale (ossia, di mancato inserimento lavorativo durante il periodo di soggiorno autorizzato), sarebbe possibile procedere al rimpatrio dello straniero, senza oneri per lo Stato e senza bisogno di applicare sanzioni o misure repressive. Si potrebbe anche pensare ad una introduzione graduale di queste misure, a seguito di una fase di sperimentazione: ammissione di piccoli contingenti di lavoratori, monitoraggio del percorso di inserimento, individuazione dei punti deboli del sistema ed adozione delle modifiche necessarie».

All’indomani della tragedia di Lampedusa, mentre gran parte del mondo politico chiedeva una legge organica in materia di asilo, lei sosteneva che l’Italia ha già una legge sull’asilo…
«Se per legge organica intendiamo una normativa che disciplini tutti gli aspetti rilevanti, in Italia la materia è già regolata da quattro decreti legislativi, addottati per dare attuazione ad altrettante direttive europee, relative a definizione e contenuto dello status di beneficiario di protezione internazionale, procedure da adottare per il riconoscimento di tale status, accoglienza dei richiedenti asilo, misure di protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di profughi. Oltre a queste disposizioni, si applicano direttamente quelle del Regolamento europeo chiamato “Dublino III”, per la determinazione dello Stato membro responsabile dell’esame di una domanda di asilo.
Non escludo affatto che alcune di queste norme potrebbero essere corrette o attuate meglio (in particolare, questo vale per le norme in materia di accoglienza dei richiedenti asilo), ma dire che in Italia non esista una legislazione organica sull’asilo è, ancora una volta, frutto di ignoranza o di malafede.
Quanto, poi, ad una piena attuazione del diritto d’asilo sancito dall’articolo 10 della Costituzione, ritengo che l’istituto dell’asilo umanitario, complementare alla protezione internazionale regolata in modo conforme alle direttive europee, colmi il gap tra i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e quelli (più ampi) per il riconoscimento del diritto d’asilo costituzionale (l’impossibilità di esercitare nel proprio paese le libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana). In altri termini, quando il mancato godimento di un diritto costituzionalmente garantito non rientri tra i motivi in base ai quali può essere accordata la protezione internazionale, la legge italiana prevede già che sia rilasciato un permesso per motivi umanitari. E l’ultima parola sulla decisione di rilasciare o meno tale permesso spetta al giudice ordinario (non al questore)».

In Italia si può chiedere asilo solo se ci si trova già sul territorio nazionale: non è possibile, cioè, chiedere protezione alle ambasciate italiane all’estero, così come non è possibile ottenere un visto per asilo o per motivi umanitari. Ciò costringe i richiedenti asilo a entrare in Italia in modo irregolare, affrontando viaggi pericolosi e spesso a rischio della vita. A seguito della tragedia di Lampedusa si è parlato a lungo di un “corridoio umanitario”, cioè della possibilità di chiedere protezione direttamente dall’estero. Lei – che da sempre sostiene la causa dei profughi e dei rifugiati – ha espresso un parere critico nei confronti di questa proposta. Perché?
«La creazione di corridoi umanitari (ossia di canali di ingresso per persone che abbiano bisogno di protezione) è una cosa ottima, perché non rende necessario, per queste persone, affidarsi alla malavita per poter raggiungere, con enormi rischi, il territorio dell’Unione europea.
La mia obiezione riguarda un aspetto particolare. Alcuni propongono che, in generale, alla procedura di asilo si possa accedere presentando domanda alle autorità italiane (per esempio, al consolato) dal proprio paese. Ora, la normativa italiana e quella europea riconoscono il diritto alla protezione ad una platea potenzialmente vastissima di persone; in particolare, quelli la cui incolumità sia messa a repentaglio da un conflitto armato.
Se tutti costoro potessero presentare domanda dal proprio paese, il numero di domande sarebbe enorme. Trattandosi di un diritto, rispetto al quale non è consentito allo Stato opporre argomenti di sostenibilità o di opportunità, le domande dovrebbero essere automaticamente accolte. Il risultato sarebbe, paradossalmente, negativo: il giorno dopo, infatti, verrebbe modificata la normativa e il diritto alla protezione per chi fugga da guerre verrebbe semplicemente cancellato.
In altri termini, possiamo permetterci il lusso di garantire quel diritto solo perché pochi profughi di guerra riescono ad arrivare nel nostro paese e ad accedere alla procedura di richiesta di asilo.
I corridoi umanitari possono essere invece utili come strumento complementare a quanto attualmente previsto (diritto dai presupposti ampi, ma difficoltà di accesso alla procedura). Quando si riconosca che, in presenza di un conflitto armato, le persone che riescono ad accedere alla procedura (sul nostro territorio) sono molto meno numerose di quelle che potremmo ragionevolmente accogliere, si potrebbe decidere di concedere protezione ad un certo contingente di persone provenienti dall’area del conflitto.
Entro il limite stabilito (in base a criteri di sostenibilità), le persone potrebbero accedere alla protezione, presentando domanda già nel loro paese: le domande accolte darebbero luogo al trasferimento dei richiedenti, in condizioni di sicurezza, nel nostro paese. Una procedura del genere è prevista dalla direttiva europea sulla protezione temporanea, e potrebbe essere gestita anche a livello comunitario, in base alla disponibilità espressa da ciascuno Stato membro».

Le sue sono, da sempre, posizioni contro-corrente nel dibattito politico sull’immigrazione… non si sente un po’ una mosca bianca?
«Non so se siano realmente posizioni contro-corrente. Certe volte sono solo proposte in anticipo rispetto al processo con cui le forze politiche le metabolizzano e le rilanciano. Penso a quella dell’istituzione del canale di ingresso per ricerca di lavoro. La prima proposta in questo senso la avanzammo, Annemaria Duprè ed io, il 17 gennaio 1993. Dopo ventun anni, benché lontana dall’essere attuata, è diventata quanto meno un leit motiv dei discorsi sull’immigrazione del centrosinistra».

Sergio Bontempelli