Buone pratiche

Accogliere bene i rifugiati è possibile

Stefano Galieni - 28 Gennaio 2014
la valuta locale in circolazione a Riace

la valuta locale in circolazione a Riace

«Pensi alle coincidenze? Siamo nati nello stesso anno, abbiamo fatto gli stessi studi, ci siamo presentati alle elezioni nel 1999 e abbiamo perso, 5 anni dopo abbiamo vinto e siamo diventati sindaci, e poi il secondo mandato. E a maggio ci saranno elezioni. Ma abbiamo fatto due mandati e non possiamo ripresentarci». Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa, in provincia di Cosenza, si diverte a evidenziare le coincidenze di percorso con Domenico (Mimmo) Lucano, sindaco di Riace. Quello che non dice, ma lo facciamo noi per lui, è che entrambi – con impegno, dedizione e lungimiranza – sono riusciti a trasformare quella che poteva essere un motivo di disagio – l’arrivo di tanti rifugiati – in un’opportunità per il proprio territorio. Acquaformosa e Riace sono riconosciuti come modelli di buona amministrazione fondate sul valore dell’accoglienza, quella vera, che non spreca risorse ma crea cittadini.
Acquaformosa è un paesino dell’entroterra calabrese in provincia di Cosenza, circa 1.100 abitanti e tante case che si sono svuotate. Uno dei tanti piccoli Comuni con forte presenza della minoranza arbëreshë, gli albanesi giunti in Calabria in fuga 500 anni fa dall’Impero Ottomano. Riace è invece sulla costa ionica in provincia di Reggio Calabria, divisa in una parte marina e in una “alta”, a 7 chilometri dal mare conta complessivamente su oltre 1.800 residenti. E mentre negli anni entrambi i Comuni si spopolavano, per una emigrazione mai interrotta, Riace Marina diveniva zona di speculazione edilizia mentre Acquaformosa restava legata ad una dimensione più tradizionale. I due sindaci, anche se animati dalla stessa volontà, sono quanto più di diverso si possa immaginare.

Domenico Lucano era un maestro elementare che alla fine degli anni Novanta, dopo una esperienza politica nella sinistra extraparlamentare, aveva creato l’associazione Città Futura, Don Peppino Puglisi. Erano gli anni in cui sulle coste ioniche sbarcavano ancora molti profughi soprattutto kurdi e kosovari. «Tutto è iniziato con un veliero sbarcato sulle nostre coste – racconta ancora emozionato – decidemmo subito che quelle persone che chiedevano aiuto erano l’altra faccia dei tanti che dalla Calabria dovevano andare al nord per trovare lavoro e spalancammo le porte». Lucano tentò un esperimento che sembrava all’inizio folle. Ottenne alcune case malmesse di Riace Superiore, insieme agli altri soci le rimise in sesto e divennero appartamenti in cui ospitare i profughi. Dopo aver perso le elezioni ma sentendo dietro a loro una parte importante della popolazione, l’associazione provò a fare il salto di qualità. Alcuni alloggi, restaurati vennero utilizzati per turismo responsabile. Chi arrivava allora a Riace non veniva tanto per la notorietà dei famosi Bronzi, ritrovati nel 1972 e rapidamente trasferiti a Reggio Calabria, ma per trovare un ambiente diverso. Una sola taverna in cui con pochi soldi si mangiavano piatti tradizionali calabresi, kurdi o eritrei, il silenzio rotto solo dai bambini nati o da poco nati in quella che per i genitori era una nuova terra, sembrava che, percorrendo gli stretti vicoli, tutto si fosse in poco tempo rianimato. E poi un bar, riaperto da un riacese che era emigrato a Torino e poi il frantoio e il piccolo caseificio artigianale che riprendevano a produrre. Persino l’antica tradizione dei telai con cui si tesseva il filo di ginestra era tornata ad operare. Tessuti ruvidi resi abbaglianti dai colori e dai disegni provenienti dall’Africa. Col tempo nacquero i laboratori del vetro, del legno, del ricamo e della ceramica, con l’obiettivo di rendere autonomi coloro che ottenevano asilo o protezione umanitaria. Nel 2000 Riace entra nel Pna (Piano Nazionale Asilo) che anni dopo si tramuta in Sprar. Come Caulonia, comune vicino, decide di investire sempre più nell’accoglienza e nell’inclusione. I cittadini vedono una speranza e nel 2004 Mimmo Lucano diviene sindaco. Un sindaco sui generis, poco avvezzo ai ricatti e alle mediazioni imposte dalla politica, soprattutto ai ricatti clientelari, più pronto a raccontare sogni che si avverano e che si ampliano.
Negli anni il paese è divenuto un simbolo di riscatto. L’accoglienza migliore nella regione più povera, la trasparenza amministrativa, in un contesto come quello della Locride, tristemente noto per il peso della criminalità organizzata. Non è un paradiso, i conflitti e le difficoltà ci sono, si discute anche affannosamente. Sono diventate quattro le associazioni che si occupano di accoglienza ed aumenta di anno in anno il numero delle persone che vorrebbero fermarsi. I fondi dello Sprar spesso arrivano in ritardo, sono pochi e per molti profughi è difficile trovare lavoro. C’è chi a malincuore se ne è andato alla ricerca di futuro nel Nord Europa e chi è rimasto, per scelta o per costrizione. «Abbiamo però attraversato fasi molto critiche – riprende il sindaco – Con lo Sprar riceviamo 24 euro al giorno come contributo per ogni ospite. Con questi soldi si deve provvedere a tutto, dalla casa al cibo, dalle utenze alle spese per viaggi, documenti, rinnovo dei permessi, eccetera. Arrivavano e arrivano poi con un ritardo impossibile. E con ritardo arrivano anche i bonus con cui i rifugiati debbono sopravvire: 250 euro al mese se da soli, 230 a persona se si è un nucleo familiare con un figlio e via a scalare. Noi non accettiamo la logica della separazione. A Torino i rifugiati vivono ammassati in due grossi centri in aperta campagna. Da noi hanno ogni famiglia un piccolo appartamento e si conquistano una propria autonomia. Per ovviare ai ritardi, abbiamo cominciato a stampare banconote. Le prime raffiguravano Gandhi, Che Guevara, Peppino Impastato, ora ne abbiamo di nuove con Antonio Gramsci, Vittorio Arrigoni, Franca Rame, Franco Basaglia. Ne abbiamo fatte anche per Peppe Valerioti, il dirigente del Pci che nel 1980, dopo una vittoria elettorale, venne ucciso dalla mafia e per Dino Frisullo, l’amico antirazzista che era con noi quando arrivavano i primi kurdi. I commercianti accettano queste banconote perché sanno ormai che non appena arrivano i fondi, potranno riavere l’equivalente in euro. Così, in tempo di crisi sosteniamo anche la micro economia locale e non lasciamo spazio a illegalità. E poi, invece che portare ai rifugiati le buste della spesa, è dignitoso metterli in condizione di gestirsi le poche risorse in base a proprie scelte».
Oggi i rifugiati a Riace sono circa 250, tanti in rapporto alla popolazione locale, eppure non si lanciano allarmi sociali. Problemi ce ne sono stati nel 2012, a seguito dell’Emergenza Nord Africa: «Hanno affidato, sotto il governo Berlusconi, tutto alla Protezione Civile facendo lievitare i costi (46 euro al giorno per profugo) – riprende Lucano – Un business che in Sicilia ha portato a mostri come il Cara di Mineo e che da noi ha fatto si che la protezione civile calabrese affidasse i progetti Sprar ad alberghieri improvvisati, casualmente tutti amici di Scopelliti (il presidente della Regione ndr). Non avevano neanche le autorizzazioni e ammassavano le persone per fare più soldi. Dopo un anno è saltato tutto e hanno cominciato a non pagare più i comuni. I supermercati non accettavano più i bonus, noi non potevamo dar da mangiare ai figli dei rifugiati e come sindaci che abbiamo scelto l’accoglienza, abbiamo iniziato uno sciopero della fame. E abbiamo vinto».
Il secondo mandato di Domenico Lucano terminerà il 25 maggio, prima ad inizio del mese, ci sarà a Riace una assemblea nazionale della rete dei Comuni Solidali in cui vorrebbero invitare anche il Pontefice: «Quando era vescovo a Buenos Aires andava a dir messa nella basilica di S. Cosma e Damiano, che sono i nostri protettori – ricorda il sindaco – ora un sacerdote riacese, sta cercando di contattarlo. Sarebbe il modo giusto per chiudere questi 10 anni straordinari e difficili. Io per fare il sindaco ho trascurato la mia famiglia, a mio figlio hanno anche avvelenato i cani e una volta lo hanno schiaffeggiato per colpire me. Alla mafia quello che facciamo non piace». A Riace, stranamente ora sembra regnare il silenzio in attesa delle elezioni, difficile sapere quale sarà il futuro, difficile capire se l’esperienza di Domenico Lucano, che nel 2010 è stato nominato “secondo sindaco del mondo” (dopo quello di Città del Messico) e che tre mesi fa è stato anche insignito del “Premio Antonio Caponnetto”, o se tornerà in mano agli speculatori che hanno deturpato le coste. «Questi 10 anni sono stati magnifici – chiude il sindaco – ma col mio lavoro ho trascurato la famiglia e questo mi pesa. Ho provato a non inventarmi grandi opere ma ad essere vicino a chi ha bisogno, come mi hanno insegnato tante persone come Monsignor Bregantini, un tempo vescovo della Locride. Bregantini, all’epoca degli sbarchi, faceva quello che oggi dice il Papa, apriva i conventi per accogliere i profughi e senza chiedere permessi. A me che sono estremista, insieme ai comunisti, hanno insegnato tanto alcuni preti. Un mio professore di religione poi scomunicato, Natale Bianchi, mi portò da piccolo ai funerali del comunista Valerioti. Ascoltai le parole dell’allora sindaco di Rosarno, Peppino Lavorato e mi commossi. Mi parlava del mugnaio ucciso dalla mafia perché non aveva abbassato la serranda per onorare boss morto e a proposito dell’omertà scriveva tranquillamente “Cristo non si è fatto i cazzi suoi”»

Siamo destinati ad accogliere
Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa, ha nel parlare la stessa passione del collega di Riace, ma se il primo coinvolge in una splendida utopia, il secondo unisce alla passione una positiva dose di pragmatismo. Un sindaco del Pd, che si è trovato al meeting della “Leopolda” a Firenze ed è rimasto favorevolmente stupito dalle aperture del nuovo segretario del partito su queste materie. «Mi ha colpito – dice – ha detto cose nuove e ora voglio vedere se avranno un seguito. Intanto, almeno il reato di clandestinità va verso l’archiviazione». Manoccio divenne famoso perché nel 2009 dichiarò il comune che amministrava “deleghistizzato”, aggiungendo un decalogo di azioni da compiere per affrontare alcune battaglie di retroguardia portate aventi dalla Lega. «Loro toglievano le panchine per evitare che ci dormissero gli immigrati? – racconta divertito – noi le aumentammo e ci mettemmo i cuscini. Loro scrivevano “Forza Etna”? E noi “Viva l’amore libero”.
Ci era già venuti a trovare Mimmo Lucano e io ricambiai la visita andando per conto mio, perché volevo vedere le cose fatte a Riace non da turista ma dall’interno. Ebbi uno schock positivo. Vedere le mamme riacesi e le mamme dei bambini immigrati che aspettavano insieme i figli all’uscita dalla scuola e che comunicavano fra loro, mi fece capire che potevo fare qualcosa. Partecipammo al bando Sprar anche pensando che fosse uno strumento per evitare lo spopolamento. La riforma voluta dall’allora ministro Gelmini che cancellava i piccoli plessi scolastici ci avrebbe privato della scuola, tanto è che in un primo momento, come forma di protesta, avevamo iscritto alle elementari i nonni. In quegli anni il ritmo demografico era di 6 nascite all’anno a fronte di circa 30 morti. Quando sono cominciati ad arrivare i primi profughi l’impatto è stato dirompente, come un ritorno alle origini. Mi debbo spiegare meglio. In questo, come in tanti altri paesi, da 500 anni c’è una forte minoranza di origine albanese che ancora parla una propria lingua. Nel 2004 qui è morto a 94 anni un sacerdote, don Vincenzo Matrangolo, che per tutta la vita ha tenuto in piedi un collegio per i bambini delle famiglie povere calabresi e la metà era albanese. Nella mia scuola elementare accadeva lo stesso. Come potevamo dimenticare che anche noi siamo stati profughi? Di queste iniziative si comincia a parlare in tutta la regione e piovono inviti a dibattiti e conferenze. Ed io a spiegare come la convivenza sia possibile anche in condizioni di difficoltà. Chi tentennava ha capito anche per ragioni economiche. Nonostante la gestione pessima dell’Emergenza Nord Africa, anche nel nostro paese tutti si sono accorti che per ogni 10 euro che giungevano per i rifugiati, 8 finivano nell’economia locale». Si è formata una associazione che si è presa la briga di seguire il percorso di ogni singola persona, partendo dal fatto che la vulnerabilità era alta ma che bisognava restituire dignità e autonomia, non fare assistenza. «Stiamo compiendo un’opera certosina che arricchisce e rivitalizza le persone. Teoricamente dopo un anno dovrebbero andarsene per far posto ad altri, ma in poco tempo non è facile realizzare tirocini, corsi di italiano, preparare curriculum. Le imprese avrebbero tutto l’interesse ad assumere molti di loro per le tante esenzioni che ne ricaverebbero, ma spesso chi parla di queste cose, anche nei talk show, ignora totalmente gli aspetti fondamentali del tema di cui sta trattando».
Oggi in questo paesino di 1.100 anime vivono circa 50 rifugiati, molte le donne, giunte da Lampedusa, soprattutto di nazionalità eritrea. Recentemente la ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge è venuta in visita nei vari paesi dell’accoglienza. Ad Acquaformosa, gli abitanti tiravano fiori dalle finestre e, come ha ricordato in una recente intervista, una anziana signora ha voluto farle dono di una cassetta di verdure da lei coltivate. Un dono prezioso di cui ancora la ministra parla con commozione. «Io voglio parlare soprattutto di rifugiati perché l’insieme delle questioni dell’immigrazione meriterebbe riflessioni più corpose – riprende il sindaco – ma parto da un presupposto. I Cara come Mineo o il più vicino a nodi di Capo Rizzuto, sono stati un fallimento, vanno chiusi, sono un business enorme e costringono alla sofferenza migliaia di persone che vivono nella promiscuità. Fra gestione, vigilanza, lavori, sanità, ogni richiedente asilo viene a costare 200 euro al giorno. Vogliono risolvere il problema facendo le gare di appalto al ribasso ma non si gioca al ribasso sui diritti dei cittadini. Magari occorrerebbero invece servizi aggiuntivi. Io penso che esperienze come la nostra, quella di Riace, quella di Caulonia, se diventassero una ventina, renderebbero inutile Capo Rizzuto. Poi bisognerebbe anche aumentare il numero delle commissioni per l’asilo che sono insufficienti. Quadruplicandole si risparmierebbe. Ma questi sono temi troppo in mano al ministero dell’Interno e non bastano i sentimenti e la denuncia politica, bisogna cambiare radicalmente l’approccio». Anche ad Acquaformosa il Comune ha deciso di inventarsi delle banconote per ovviare ai ritardi delle erogazione dei fondi. «I buoni dovrebbero servire solo per le spese alimentari, ma questo impedisce anche di frequentare i luoghi di ritrovo, i bar, le pizzerie. Quindi abbiamo deciso che l’80% delle entrate resta nei buoni e il 20% va in banconote. Ovviamente, oltre a Che Guevara ed Impastato, abbiamo inserito l’effige di Skanderberg, l’eroe mitico albanese e il brigante Carmine Crocco. Chi li usa ha cominciato ad uscire la sera, a fare amicizia con gli abitanti, ad andare insieme a farsi una pizza. Da noi poi, sia d’estate che, ora, anche di inverno, facciamo un festival delle migrazioni e la comunicazione cresce. Stare insieme ci piace. Le banconote vanno a ruba, i negozianti le accettano tranquillamente ma capita anche che le acquistino i turisti come souvenir. Ora ne faremo una per Nelson Mandela». Anche ad Acquaformosa si vota a maggio, l’attuale vicesindaco sarà candidato e Giovanni Manoccio sarà in lista. Se, come sperano, ce la faranno, continuerà ad occuparsi di accoglienza. «Ho imparato tanto – chiosa – ma voglio ancora imparare».

Stefano Galieni