Nuove migrazioni

Destinazione Albania

Stefano Galieni - 6 Febbraio 2014

index«Ma gli immigrati ci rubano il lavoro?». Inizia in maniera provocatoria il video reportage, diviso in 3 servizi, che Saverio Tommasi, attore, regista, blogger e freelance, ha realizzato, con l’ausilio di www.fanpage.it in Albania. Nel presentare il primo dei suoi lavori ci spiega quali sono le ragioni che lo hanno portato dall’altra parte dell’Adriatico.

«Volevo il punto di vista albanese. In Italia si parla di questo magnifico Paese solo di fronte a episodi di cronaca nera o quando si scopre che il figlio di Umberto Bossi, uno dei più solerti avversari dell’immigrazione, si è andato a comperare la laurea a Tirana. Non è quella la realtà se si va a vedere. Io ho avuto la possibilità di restarci con un ragazzo che ora ha la cittadinanza italiana ma che ha ancora parenti e amici in Albania. Sono partito da Tirana, sono stato sia a nord che a sud e credo di essermi potuto fare una idea più complessiva. Ho in programma di tornarci perché sono tante le cose da approfondire».

Che Paese ha trovato?
«Molto dinamico, in movimento, non si percepisce staticità. È veloce, tenta di rialzarsi e camminare, ha voglia di riscatto. Faccio un esempio. Ho parlato con il ministro della gioventù e delle politiche sociali. Continuamente insisteva nell’affermare l’importanza della scuola e della formazione. Ora io non so quanto di queste dichiarazioni si siano tradotte in fatti concreti, ma so che questo ministro, creando parecchio scalpore, tempo fa ha compiuto un gesto forte. In un ospedale avevano rifiutato un bambino rom, il razzismo contro i rom è diffuso in tutta Europa e l’Albania non fa eccezione. Beh, il ministro ha preso in braccio il bambino e lo ha portato lui in ospedale. Da noi sarebbe difficile immaginare una scelta del genere».

Lei ha incontrato cittadini albanesi che erano tornati dopo aver vissuto in Italia e cittadini italiani che invece hanno trovato lavoro in loco.
«Ovviamente parliamo di persone incrociate che non possono essere assunti come dato statistico. Ho incontrato cittadini albanesi il cui percorso migratorio è fallito o per colpa della crisi (perdita del lavoro e del reddito, o integrazione che non si è realizzata) e persone che invece hanno trovato a casa condizioni migliori che in Italia. Chiaramente con un reddito più basso rispetto al nostro ma in condizioni occupazionali migliori e forse con prospettive più positive. Il muratore che si è riciclato come tassista vive meglio ora per esempio. Comunque percepiscono la propria vita come migliorata rispetto al passato da emigrati. Per gli italiani occorrerebbe fare un lavoro ancora più approfondito. I due ristoratori con cui ho parlato sono partiti dal fatto che la cucina italiana è molto apprezzata in Albania. Hanno creato posti di lavoro e se la passano bene. Il discorso è più sfumato per tutte quelle aziende di calzaturificio, intimo, eccetera. Utilizzano manodopera albanese, che costa meno ma realizzano prodotti che ritornano esclusivamente nel mercato italiano e dei paesi Ue. Hanno chiuso in Italia e si sono spostati di poche decine di chilometri. Io non penso come i leghisti che andrebbero istituiti dei pesanti dazi doganali, ma con la delocalizzazione molte cose non tornano e questo è un problema».

Non a caso ci sono imprenditori albanesi contrari all’ingresso del Paese nell’Ue
«Sì, nel video lascio parlare la proprietaria di una azienda che dice tranquillamente come l’Albania non si può permettere di entrare in Europa. Non si tratta, vorrei essere chiaro, di aziende che schiavizzano i dipendenti, ma lì i salari sono molto più bassi, dai 300 ai 600 euro al mese. Il costo della vita, se si eccettua il centro di Tirana, è altrettanto basso e ti permette di vivere. Non si hanno problemi per acquistare i generi alimentari, per trovare casa e per altri bisogni primari. Ma così si resta prigionieri nel proprio Paese. Non ti puoi azzardare ad andartene perché costa troppo e non reggeresti l’impatto, quindi si resta confinati. L’imprenditrice che non vuole entrare in Europa dice che non ci sarebbe un maggior rispetto dei diritti del lavoro né aumento salariale. Diminuirebbero solo le commesse che finirebbero nella vicina Macedonia. Prima si aprivano aziende in Romania, da quando questa è entrata nell’Unione si sono esportate in Albania. Dall’ingresso in Europa, oltre 6.000 aziende italiane hanno chiuso i battenti dalla Romania e si sono spostate».

Ma intanto si continua a sognare l’Italia?
«Molti sono contenti di essere tornati ma ad oggi non ho ancora capito bene come i giovani albanesi vedano il proprio futuro. L’Italia è sempre guardata con favore, un terzo degli abitanti parla un po’ di italiano e gran parte hanno parenti o amici da noi. La quinta parola che si conosce, bisogna dirlo, è “Berlusconi”, per loro siamo ancora un punto di riferimento. Si vedono i nostri canali televisivi e il modello di vita che facciamo percepire».

Nel sentire parlare gli imprenditori italiani si avverte una distanza fra un “noi” e un “loro” che ha un po’ di sapore colonialista.
«Non parlerei di colonialismo. Mi pare esagerato. È vero che nelle persone che ho incontrato si avverte questa distanza con gli albanesi. Ma è la stessa che si respira a Firenze nei confronti degli stranieri. Ho parlato soprattutto con persone che erano lì da poco e che non si sentivano certo albanesi. Neanche io mi sentirei albanese dopo pochi mesi a Tirana come non mi sentirei inglese dopo lo stesso periodo a Londra. Nelle mie interviste ho fatto domande volutamente banalizzanti per tentare di tirare fuori la percezione reale delle cose. Ho chiesto di raccontare similitudini e differenze fra italiani ed albanesi, questioni che predisponevano ad una risposta che identificava un “noi” e un “loro”. Sono emersi stereotipi evidenti. Le chiacchierate di mezz’ora non portavano a ragionamenti ma a tirar fuori più la “pancia” delle persone. L’italiano che emigra è quello che è anche qui, un po’ stronzo, un po’ razzista e un po’ curioso».

Ma ha anche incontrato giornalisti come Alessio Vinci.
«Lui è un caso a parte. Ha lavorato in giro per il mondo, poi a Matrix in Italia, ed ora è in una nuova tv privata albanese. In pratica, è diventato uno dei direttori di questa grande tv. Lavora 3 giorni a settimana in Albania e poi torna in Italia. È un giornalista vero che parla varie lingue e si sposta per reperire notizie, non lavora sulle agenzie. Ci siamo incontrati ad una manifestazione di studenti».

Di che manifestazione si trattava?
«Una manifestazione che ha portato a dei risultati. Erano non solo studenti che protestavano per impedire che le armi chimiche siriane venissero portate in Albania. Hanno vinto, infatti sono state portate in Calabria. Io l’ho saputo con un sms mentre tornavo in Italia».

Cosa è rimasto secondo lei del regime?
«Non ne abbiamo parlato molto ma non lo rimpiangono. La cosa che colpisce è la libertà religiosa, una libertà vera, vissuta forse anche inconsapevolmente. Ci sono chiese accanto a moschee e c’è tranquillamente chi rifiuta ogni religione. C’è anche un modo diverso di vivere l’islam. Prevale la voglia di convivere, per ora. Certo, siamo ancora all’inizio e questa è anche una reazione all’ateismo di Stato del regime. Ci sono segnali di preoccupazione, preoccupano i vari fondamentalismi ma ad oggi se si chiede al padre di una ragazza musulmana il parere rispetto al matrimonio con un cristiano la risposta sorprende: “Va bene così, facciamo una doppia festa”».

Di cosa tratteranno gli altri due servizi in preparazione?
«Uno racconterà dei viaggi per la cura dei denti. Sono numerose le persone che vanno a curarsi in Albania perché lavorano bene e in Italia i costi sono proibitivi. Io ho provato una cosa semplice come la pulizia dei denti e me la sono cavata con 10 euro. Poi ho preparato un servizio sulla delocalizzazione di call center delle compagnie telefoniche. Ho parlato con le operatrici che conoscono bene l’italiano, ma hanno un accento da cui si intuisce che vengono da un altro Paese. Beh, c’è una percentuale di nostri compatrioti che si rifiuta di parlare con un operatrice albanese. Le compagnie ci sono abituate e si sono attrezzate. C’è come una quota di razzisti considerati come nicchia di mercato da non deludere. Quando capitano, si fanno lasciare il numero e fanno richiamare da una collega in Italia. In pratica, chi non accetta di parlare con un albanese ha un servizio supplementare».

Stefano Galieni