Tre giorni di dibattito intenso, tra i rappresentanti dei movimenti antirazzisti di mezza Europa, migranti e cittadini di Lampedusa. La Carta di Lampedusa (un lungo, ma davvero lungo documento) è stata approvata. (Qui potete leggerla. Per sottoscriverla, invece, andate qui). Adesso comincia l’impegno per far sì che essa serva davvero a cambiare le cose. Troppi percorsi antirazzisti si sono trasformati – per ragioni piccine – in sentieri interrotti. È quello che non vogliamo.
«Abbiamo provato a costruire uno spazio pubblico in cui ognuno potesse sentirsi a casa. In questo spazio abbiamo, insieme, elaborato un “patto” e questo è il valore della Carta», dice Nicola Grigion del Progetto Meltingpot. «Non vogliamo costruire l’ennesima rete ma contribuire all’allargamento di un movimento euro-mediterraneo proponendo a tutti coloro che si riconoscono in questo testo di lavorare, a partire dal proprio specifico, perché le istanze che contiene si estendano, si diffondano e cerchino il modo di realizzarsi». La parola più ricorrente, scorrendo il testo, a tratti di difficile lettura, è “libertà”. Libertà di muoversi, di restare e di tornare, di avere possibilità di accesso paritario ad una qualità della vita diversa. Libertà dai vincoli delle frontiere e dalla loro militarizzazione, dai luoghi di costrizione o di falsa accoglienza come da una chiusura dei soggetti in categorie statiche e onnicomprensive. Libertà di resistere e di aspirare ad una piena realizzazione dei diritti di cittadinanza per tutti e tutte. Un testo carico di sana utopia che non pretende di divenire proposta di legge e non si rivolge ai governanti, ma che vuole provare ad essere strumento per incalzare la società, producendo cambiamenti che oggi la politica sembra non poter permettere. Istanze che potrebbero anche trovare modo di concretizzarsi in obiettivi da raggiungere e da perseguire, dalla chiusura dei Cie alla smilitarizzazione del Mediterraneo, alla libertà di movimento nei confini europei, ma la cui attuabilità dipenderà dalla crescita di una massa critica.
«Dalle tragedie – dice Gabriella Guido, coordinatrice della Campagna LasciateCIEntrare – è sembrato poter nascere una sana voglia di riaffrontare la realtà e le cose che vanno cambiate radicalmente. Dopo 4 mesi, una parte di società civile, non solo italiana ma anche europea, ha deciso che da un luogo di confine si potesse cominciare un percorso di “abolizione delle frontiere”. Laddove le “frontiere” sono anche i diritti negati o non garantiti. A mio avviso, questo è il seguito del percorso iniziato con la Carta mondiale dei migranti, (che per coincidenza è stata approvata, negli stessi giorni, tre anni fa, ndr) dove uomini e donne cercano di costruire geografie e spazi liberi per tutti i cittadini del mondo».
Manila Ricci è giunta a Lampedusa da Rimini. Nella città romagnola insieme ad un sindacato, l’Adl, si occupa dei lavoratori sfruttati nei comparti alberghiero e della logistica, da tempo è impegnata nella gestione di uno stabile occupato, abitato soprattutto da migranti, a cui è stato dato il nome di Casa Madiba. «Sono molti gli elementi di queste giornate che mi hanno positivamente colpito, nonostante la fatica di seguire il dibattito. Era fortissima la volontà di allargamento e la voglia di costruire coalizioni sociali. Se si tiene presente come nel nostro Paese, e molto anche nella mia regione, si sono alimentate tanto le politiche dell’odio, quello che ho visto è il meglio di una critica radicale allo stato di cose presenti, una critica al capitalismo insomma. Nonostante la difficoltà di stare insieme, siamo riusciti a racchiudere un insieme di princìpi con cui costruire vertenza nei territori. Un cambiamento non solo di metodo. Ci siamo incontrati con chi subisce la spettacolarizzazione e il controllo della frontiera, abbiamo visto come questo abbia una ricaduta su chi abita in questi luoghi. Ci ha fatto bene incontrare i ragazzi del liceo, i piccoli imprenditori, le mamme lampedusane, il collettivo Askavusa, il sindaco. Tutti ci hanno messo di fronte a problemi concreti».
«Io mi occupo da 6 anni di tematiche connesse all’immigrazione e ho lavorato in contesti europei molto diversi fra loro – racconta Anna Lodeserto, vice Presidente della sezione italiana di European Alternatives – Ho trovato stimolante l’incontro sia dal punto di vista organizzativo che contenutistico e operativo. Ho visto realtà che non sono abituate a cooperare ma a contrastarsi, movimenti e organizzazioni strutturate sul territorio, politico-legislativo, sindacati campagne plurali, normalmente protagonisti anche con un raggio di azione europeo, partiti, università, studenti, attori estremamente diversi. Il luogo era difficile da raggiungere anche dal punto di vista logistico, ma c’è stata una altissima dinamica cooperativa. Un processo che non si è realizzato al volo ma con una partecipazione resa più semplice anche grazie alle nuove tecnologie, dal docu-wiki alle web conference. Tutti hanno potuto accedere e la distanza non è stata un ostacolo per un intervento nei contenuti. Utilissima anche la trasmissione in streaming. Una dimostrazione di come l’uso consapevole delle nuove tecnologie possa essere davvero utile a certe cause. La parola “inclusione” è stata una delle fondamentali keywords. Il testo, come ogni cosa, è perfettibile ma anche la presenza di attori europei provenienti da paesi spesso ignorati come il Portogallo, quella di migranti già arrivati a Lampedusa hanno permesso di ampliare lo sguardo».
Sull’importanza della partecipazione attiva insiste molto anche Toni Scardamaglia dei Laici missionari comboniani di Palermo: «Certo il documento conclusivo è lungo, ma il lavoro consensuale porta anche a questo. Ci sono le aspettative e i contributi di tanti, c’è stata una scrittura di chi lavora fattivamente e ha a cuore realtà di immigrazione – tocca poi una nota dolente – C’è stata una differenza enorme rispetto a esperienze precostituite a false espressioni di democrazia e partecipazione, spesso messe in campo dalle associazioni più forti. E poi c’è stato il coinvolgimento della popolazione, che ha calato il contesto dei diritti dei migranti in quello locale e naturale dell’isola. I bisogni che, come accade per tante vertenze territoriali, riguardano chiunque abiti uno spazio e anche ciò è parte di questo ragionamento iniziale». «Durante il meeting, ho avuto modo di parlare molto con tanti partecipanti con un back ground diverso dal mio – sostiene Neva Cocchi del Tpo di Bologna – All’inizio pareva difficile spiegare agli altri chi si era, ma un obiettivo che credo sia stato raggiunto è proprio quello di una rivisitazione dei linguaggi. Nella Carta, non è casuale, non si utilizza la parola “migranti” o altri termini che stiamo cercando di abolire dal nostro lessico. E nei lavori ho trovato una curiosa freschezza, che però rifletteva ugualmente 20 anni di dibattito di percorso sulla gestione delle migrazioni. Forse non è casuale che proprio nel nostro Paese questa riflessione abbia trovato spazio. Mi è sembrato di ritrovare gli elementi più positivi di quello che si respirava a Genova nei giorni del G8, dove avevamo ritrovato la capacità di parlare a tanti diversi da noi. In questa fase, non conoscendoci, abbiamo trovato fra noi consenso su battaglie come la chiusura dei Cie, la sanatoria, che si rifanno a momenti molto alti delle lotte dei migranti. Ci siamo riusciti senza gradualità, costruendo un dibattito non solo italiano e partendo anche dalla critica alla Turco-Napolitano, come alle legislazioni continentali in materia. Ora proviamo a riannodare i fili di un percorso che si è frammentato ma che è ricco di esperienze utili».
Ma in cocnreto, cosa succederà adesso? Premesso che i partecipanti non intendono diventare un soggetto che determina scadenze e iniziative come un tradizionale coordinamento, tutti hanno convenuto di cominciare ad utilizzare la Carta come uno strumento di cui impossessarsi. Ci sarà chi produrrà impegno per le questioni connesse alla cittadinanza e chi si occuperà di frontiere, chi di Cie e chi dei sistemi di accoglienza, chi di emergenza abitativa o di conflitto nei luoghi di lavoro. Un appuntamento però condiviso sarà quello del primo marzo, ormai considerato come una data in Italia fondamentale per mobilitarsi e che si vorrebbe estendere in una dimensione europea.
Ma qualcosa potrà essere fatto anche prima: il 15 febbraio, per esempio, è prevista una manifestazione a Roma per la chiusura del Cie di Ponte Galeria. Il giorno dopo ce ne sarà un’altra a Mineo, in provincia di Catania, davanti al Cara. Il no alla detenzione amministrativa e alla falsa accoglienza, come abbiamo visto, sono fra i principali elementi unificanti della Carta. Intanto si cercherà di ampliare il numero delle firme di adesione alla Carta di Lampedusa: «Ambiziosa ma condivisibile la proposta lanciata di raggiungere un milione di firme in tutta Europa – riprende Anna Lodeserto – Dovremo, secondo me, tornare più numerosi a Lampedusa, partendo dal fatto che occorre riportare altrove lo spirito che ci ha permesso di arrivare fino a qui». «Non dobbiamo farci aspettative di proposte concrete», dice Toni Scardamaglia. «La Carta è uno strumento, un luogo di arrivo e di partenza, un percorso di tante e di tanti che può segnare uno spartiacque. Ora dobbiamo ritrovarci per il futuro delle lotte in questo Paese e nel continente. Farla agire come una iniezione di fiducia in un momento di crisi, esprimendo una volontà che arriva dal basso. Dovremmo poter ragionare di come cambiare un’Europa che merita di veder realizzati gli ideali di fratellanza della Rivoluzione Francese, proprio ora, quando sembrano invece dominare le leggi dell’economia e della finanza».
Di un nuovo statuto per l’Europa parla anche Gabriella Guido: «Ma non dobbiamo dimenticare di avere anche un interfaccia politico da affrontare e con cui confrontarsi. Quello che ci aspetta è insomma conservare uno spirito comune e agire avendo a mente anche le risposte concrete». «E poi ci aspettano anche le elezioni europee – riprende Manila Ricci – che, a mio avviso, rappresentano una tappa importante. La carta ci indica una traccia che ci permette di entrare nel da farsi. A Lampedusa eravamo molti dall’Emilia Romagna, di alcuni soggetti ignoravo anche l’esistenza. Presto organizzeremo un incontro per far interconnettere le diverse esperienze, dagli sportelli alle vertenze, per produrre benessere sociale e conflitto. La nostra è una regione grande in cui anche mettere però insieme una rete di sportelli sarebbe straordinario. Mi suggestiona molto l’idea di un “Primo Marzo” europeo, ma sarà dura da realizzare. E poi dovremo porci nell’ottica chiara che non stiamo impegnandoci per i diritti dei migranti ma per quelli di tutti».
«Importante mettere in piedi un lavoro con le scuole e le università», sostiene Neva Cocchi. «Il testo ci serve per allargare la condivisione, ma così non è sufficiente, deve ricadere su azioni concrete. Quando scriviamo di libertà personali, si torna alla necessità di chiudere i centri di detenzione per migranti. A Bologna come a Gradisca, dovremmo far chiudere definitivamente anche quelle ora in stand by, partendo da Lampedusa. La Carta chiede la cancellazione di quella struttura, molti sottoscrittori hanno segnalato la loro indisponibilità a vivere con fabbriche di sfruttamento e di reclusione. E ci si deve impegnare per chiudere non solo i Cie, ma anche le strutture di cosiddetta accoglienza, perché sono spazi di sottrazione di libertà. Se capiterà una nuova “Emergenza Nord Africa” il governo risponderà con il confinamento e non con un modello nuovo di accoglienza e inclusione. Anche noi ci mobiliteremo per il Primo Marzo mettendo in piazza nuove energie dopo il risultato della manifestazione del 18 dicembre». A chi le fa presente la complessità del testo della Carta, Neva ribadisce la necessità di un lavoro da fare anche con gli studenti: «Meglio fare laboratori di lettura che semplificare il testo e ridurlo ad un volantino o ad un articolo – afferma – riappropriamoci anche della necessità di comprendere». Nicola Grigion con cui si è iniziata questa carrellata non esaustiva, ritorna un po’ sul proprio approccio: «La priorità di oggi è allargare la condivisone di questa Carta. Noi contribuiremo a farlo nelle piazze che si riempiranno nei prossimi mesi su questi temi e proporremo di pari passo che si avvii un percorso giuridico /legale di proposte ed analisi».
Stefano Galieni