Effetto Dublino

C’è Lampedusa in Hamburg!

- 6 Febbraio 2014

web_plakat_lampedusa-212x300Si chiama Friday, viene dal nord della Nigeria e mi mostra subito, con orgoglio, alcune foto che ha nel tablet. Sono le immagini della manifestazione che hanno fatto ad Amburgo con gli studenti. Quelle successive, mostrano un gazebo dove si vedono delle facce sorridenti tra del materiale informativo. È il presidio permanente dell’associazione Lampedusa in Hamburg, di cui lui è uno dei fondatori, che da alcuni mesi si trova in una delle strade della città, allo scopo di informare e sensibilizzare i passanti. Vogliono convincere il governo tedesco a farli rimanere in Germania, anche se la loro protezione internazionale è stata accordata in Italia. L’associazione, nata con questo scopo, è principalmente formata da profughi arrivati dalla Libia durante il 2011: vedendo che nel nostro paese non riuscivano a trovare lavoro ne un posto dignitoso dove vivere, sono andati altrove.

Friday racconta di essere stato accolto per circa due anni a Lucca. Arrivato in agosto, a Lampedusa c’è rimasto neanche due giorni ed è stato poi portato nella città toscana. Da fine agosto 2011 al 28 febbraio 2013 è rimasto nel “campo”, come chiama il progetto d’accoglienza. In questo posto poteva avere da mangiare, da dormire e, in teoria, imparare l’italiano. Ma il corso che ha frequentato deve essere stato poco efficace: tutta la nostra conversazione si svolge in inglese, e non per scelta. Friday racconta di aver chiesto di essere aiutato a lavorare come meccanico, cosa che era in grado di fare, ma gli è stato sempre detto che (chissà perché) non era possibile e che doveva aspettare. “Aspetta”, infatti, è una delle poche parole italiane rimaste impresse nella sua memoria. Friday ha aspettato. E verso la fine dell’Ena gli è stato riconosciuto il permesso d’asilo politico. Che cosa questo esattamente significhi, non gli è stato spiegato. Né è successo qualcosa di buono sul fronte dell’inserimento socio-economico. Finito il periodo d’accoglienza gli hanno fatto firmare un foglio, dato cinquecento euro e si è trovato a dormire in un centro Caritas con altre otto persone.

«So, what I could do?» mi dice. Che potevo fare? Se n’è andato. Non aveva amici o parenti in Germania. Non sa spiegare perché sia andato in Germania invece che in Svizzera o in Francia, però, ad un certo punto, si è trovato in questo paese. Una volta fermato dalla polizia, gli è stato detto che in Germania con quel permesso non poteva rimanere per molto tempo e soprattutto non poteva lavorare. Con lui c’erano altre persone arrivate dall’Italia dopo l’Emergenza Nord Africa. Ma per rimanere e potersi inserire in Germania hanno bisogno che il loro permesso venga riconosciuto, diventi stabile e sia valido per l’attività lavorativa. «Ci dicono che non possono fare niente per noi perché  è l’Italia che se ne deve occupare. Per questo lo scorso maggio ci siano iniziati ad organizzare. Eravamo in quattro all’inizio e c’era un’associazione che ci supportava, che si chiama Caravan».

Adesso sono oltre 360 gli aderenti all’associazione e non solo ad Amburgo, ma anche a Berlino e in altre città. Si sono dotati di un sito che informa sulla loro situazione attuale e sulle loro attività di sensibilizzazione, e che parla anche del nostro sistema di accoglienza. «Noi andremo in tribunale contro il Regolamento Dublino. Se c’è l’Unione Europea che permette la possibilità di mobilità per i cittadini, perché questo diritto non deve essere riconosciuto anche per i rifugiati? Perché per noi questa possibilità non c’è?».

Francesca Materozzi