Rifugiati/2

Luci ed ombre del nuovo sistema

Francesca Materozzi - 12 Febbraio 2014

Appello-della-Caritas.-In-strada-13mila-rifugiati«Senza dubbio, si tratta di un ampliamento positivo», esordisce così Gianfranco Schiavone, che abbiamo interpellato per approfondire l’allargamento dello Sprar. «Per molto tempo lo Sprar è rimasto un progetto di nicchia, a cui solo i più fortunati potevano accedere». Schiavone è membro dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione) è stato coordinatore della prima ricerca multidisciplinare sul sistema asilo politico in Italia Il diritto alla Protezione.

Il Sistema d’Accoglienza per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar), è utile ricordarlo, fornisce servizi per l’integrazione per richiedenti asilo e rifugiati. Il primo progetto d’accoglienza in Italia era nato alla fine degli anni novanta con il nome Azione Comune, si era poi strutturato ed aveva assunto il nome di Pna (Progetto Nazionale Asilo) per prendere una forma definitiva con lo Sprar nel 2002. Da allora fino al 2012, era rimasto come congelato. C’era stato un aumento dei posti, da duemila a tremila, ma in maniera totalmente lontana dalle esigenze effettive. In situazioni emergenziali, si era preferito ricorrere ai centri collettivi a diretta gestione governativa, ossia i Cara (Centri d’Accoglienza per Richiedenti Asilo), che fornivano solo servizi di mera accoglienza. La “giustificazione” era che il Governo aveva bisogno di disporre di posti a “fisarmonica”, dal momento che gli arivi non erano programmabili. Ma gradatamente, soprattutto a livello amministrativo, ci si è resi conto che il modello Cara non funzionava, mentre quello Sprar, per quanto perfettibile, portava a buoni risultati. Non solo per la qualità dell’assistenza ma anche per la capacità di rispondere velocemente alle esigenze di reperimento posti.

«A questa presa di coscienza si è arrivati per due ragioni – dice Schiavone – La prima è legata all’impossibilità di continuare a negare, da parte del Governo italiano, che i posti disponibili sono insufficenti. Come sappiamo, è aperta un’infrazione da parte dell’Unione Europea per la mancata accoglienza non solo in termini qualitativi ma anche quantitativi. La seconda  è che ci si è accorti che avviare programmi di accoglienza diffusi non è così difficile, lungo e laborioso come si pensava».

In effetti, tra il 2012 e il 2013 sono stati reperiti migliaia di posti in poco tempo, da 3.000 a oltre 9.000 posti. Questo ha poi portato a fare il salto numerico nel 2014 a 16.000 posti, stabilizzando quello che era stato un allargamento per via amministrativa. Il sistema, in realtà, non ha raggiunto i numeri che erano stati auspicati. Invece di 16.000 posti, sono stati approvati progetti per poco più di 12.000 persone, a cui poi bisogna aggiungere quelli per il disagio mentale, per i minori e per chi ha problemi di salute. Comunque non arriviamo a 13.000 e i posti aggiuntivi, attivabili su richiesta del Ministero dell’Interno, sono 6.200. Senza dubbio, ci si aspettava una maggiore risposta, da parte degli enti locali, al bando. Se si va a vedere le tabelle di assegnazione dei progetti e si guarda ai punteggi che sono stati assegnati, si nota un gap impressionante. Il punteggio rappresenta il criterio di valutazione con il quale viene riconosciuto o meno l’aderenza del progetto presentato alle richieste del bando di assegnazione. Più è alto, più il progetto è efficace, almeno sulla carta. Nella tabella sopracitata troviamo che Parma si attesta prima con una valutazione di 18,42, Salerno è ultima con 2,05. Già a prima vista, si può notare come solo i vecchi progetti, tendenzialmente, abbiano raggiunto un punteggio alto, ma non solo. Circa un quarto di tutti i progetti non supera il sei. «Questo, non può che voler dire che, siamo di fronte a progetti di scarsissima qualità, che rende questa graduatoria inquietante. Siamo andati a cercare sul fondo del barile nel tentativo di reperire tutti i posti possibili – dice il nostro referente Asgi, che però aggiunge – Magari ci saranno stati dei Comuni che hanno avuto una spinta etica, non accompagnata da una adeguata preparazione tecnica. Per altri, è lecito pensare, che la motivazione sia stata la possibilità di poter accedere a dei fondi e creare posti di lavoro. Certo, c’è il rischio che questa situazione possa abbassare la qualità dello Sprar». Il rischio è che lo Sprar si trasformi da progetto modello in un parcheggio, e non solo per una questione legata al punteggio.

Se si va a vedere come si collocano geograficamente i nuovi progetti, scopriamo che la graduatoria è sbilanciata verso sud. «Certo lo Sprar porterà lavoro per gli abitanti, ma come si può pensare che posti che non offrono molto, neanche a chi ci abita, possano poi essere luoghi di integrazione». Quella di  Schiavone non vuole essere una questione di polemica territoriale, come lui stesso sottolinea, ma certo apre un altro scenario importante. Sicuramente in molti paesi del sud ci sono meno tensioni sociali e culturali, ma il nodo dell’integrazione, che spesso si lega alla possibilità di stabilizzarsi tramite un lavoro, non è una questione di poco conto. «L’Italia non ha una politica per l’integrazione sociale per i rifugiati – incalza – e anche se li tiene dentro un progetto per un periodo di tempo, anche se il bando 2014/2016 chiedeva ai progetti di caricare più risorse e più energie (ed ha anche messo più punteggio) per i programmi per l’integrazione, in realtà, questi rimangono troppo deboli». Troppo breve il tempo d’accoglienza, sei mesi o un anno, che non consente un inserimento adeguato per la maggior parte delle persone.

I dati del 2013 si vedranno a breve nella presentazione del rapporto Sprar del 2013, che si terrà a Roma il 13 febbraio. «Già nel precedente report del 2012 i dati erano impietosi sui percorsi di inserimento, tra abbandoni di progetto e uscita per decorrenza termini. Con questo termine burocratico si indica chiaramente che le persone sono uscite, ma non perché si sono rese autonome e autosufficienti». Continua, quindi lo Sprar è senza dubbio meglio dei Cara, ma anche così c’è il rischio di produrre e diffondere disagio sociale sul territorio: «Se non si interviene con una maggiore e più forte politica, aumentando i servizi per l’integrazione e ripensando lo Sprar anche in questo senso». La mancata integrazione può essere anche uno dei motivi per cui si sta assistendo ad un abbandono massivo del nostro paese da parte dei rifugiati che cercano nel resto di Europa migliori opportunità, scontrandosi poi con il Regolamento Dublino.

«La spinta propulsiva, data dalla volontarietà di un’adesione ad un bando, è ormai finita. Per cui, c’è bisogno di fare un cambiamento drastico» afferma Schiavone, che illustra la proposta dell’Asgi in materia d’accoglienza: «In realtà, è necessario passare da un sistema a bando ad adesione volontaria, ad uno a regime. C’è bisogno d’un trasferimento di competenze a tutti gli enti locali nella gestione dei servizi di accoglienza per i richiedenti asilo e rifugiati. È un passo necessario, dentro una programmazione chiara tra Stato, Regioni ed enti locali, affinché  il sistema si diffonda veramente e si stabilizzi. Adesso non è un sistema ma un progetto, vastissimo, che potrebbe terminare da un momento all’altro. Non si tratta di far pesare sulle già devastate casse comunali l’accoglienza dei rifugiati. Questa gestione deve essere a totale onere dello Stato. Nella nostra proposta anche il cofinanziamento (previsto al 20% da parte degli enti locali) viene meno».

Alcune cose stanno già cambiando. «In questi giorni è in discussione alle Commissione Affari Europei la direttiva n. 33 del 26 giugno del 2013. Recepimento anticipato, visto che il termine del scade nel 2015 – racconta Schiavone – Con ciò, è possibile fare un’ampia riforma normativa dell’accoglienza. La legge sull’asilo, di cui si è parlato negli ultimi tempi, potrà essere un secondo passo dopo il recepimento. Infatti, è vero che le direttive regolano molto, ma comunque non tutto e una legge quadro è necessaria».

Tutto questo avviene in contemporanea all’allargamento Sprar, che comunque è un fatto positivo. «Ma c’è una grandissima carenza di strategia politica e di consapevolezza di dove si vuole andare, sia rispetto all’autorità centrale, sia rispetto all’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) che promuove questo sistema ma, non casualmente, non ha mai proposto una riforma. Siamo davanti a un momento di grande fermento che sta portando a delle occasioni che non dobbiamo perdere».

Francesca Materozzi