Rifugiati

Lo Sprar si è “allargato”. E adesso?

Francesca Materozzi - 12 Febbraio 2014

sprarL’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia ha sempre vissuto condizioni emergenziali. Chi arriva, dopo un periodo nei Cara (centri di accoglienza per richiedenti asilo) passa da molti anni attraverso lo Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo), che è nato 12 anni fa con lo scopo di ripartire le persone in piccoli gruppi da poter inserire in progetti coordinati con gli enti locali di prossimità, i Comuni. Il sistema, nel 2014, prevedeva un ampliamento da 3.000 a 16.000 posti e non si tratta dell’unica novità. A pochi giorni dall’uscita della graduatoria che riporta i posti finanziati per il prossimo triennio, ne abbiamo parlato con la dottoressa Daniela Di Capua, direttrice del Servizio Centrale, che si occupa di coordinare e monitorare lo Sprar.

Dottoressa di Capua, dei 16.000 posti, quanti sono stati effettivamente assegnati al 29 gennaio?

«I posti assegnati, immediatamente disponibili e finanziati, sono 13.000 circa. Ma in realtà sono di più, in quanto il decreto, che ha sancito l’allargamento dello Sprar, prevedeva l’impegno, da parte di ogni progetti, di mettere a disposizione una percentuale proporzionale di ulteriori posti. Disponibilità da attivare per l’urgenze su richiesta del Ministero dell’Interno. La rete adesso è di 13.000, ma se si calcolano anche i posti aggiuntivi, potrebbe diventare di 20.000. Tale attivazione può essere sulla totalità dei posti o solo parziale a seconda delle esigenze, ma anche delle risorse».

Quali sono i tempi d’inizio?

«Sono immediati. Una parte è già attiva, perché di tratta di progetti riconfermati che sono stati riammessi tutti. I progetti nuovi sono circa 300, di questi una parte è già attiva, perché sono quelli che avevano partecipato all’ampliamento dei posti l’anno scorso, appoggiandosi alla titolarità di quei comuni che già facevano parte dello Sprar. Mi spiego meglio. Lo Sprar prevedeva, nel bando precedente, 3.000 posti all’interno di 150 progetti in tutta Italia. Quando l’anno scorso abbiamo chiesto la disponibilità ad aumentare i posti, passando, durante il 2013, da 3.000 a 9.500 posti circa, si sono aggiunti nuovi comuni che si sono appoggiati ai progetti preesistenti. Adesso, alcuni di questi comuni si sono presentati in autonomia e sono diventati progetti nuovi. Quindi, tutti questi sono già attivi. Sono circa un centinaio quelli che ancora non sono operativi ma che in poco tempo, circa un mese, inizieranno le loro attività».

Le regole dello Sprar sono date dalle linee guida?

«Le linee guida stabiliscono i servizi che i progetti danno. Tutte le persone che hanno un permesso di richiedenti asilo, umanitari e protezione internazionale possono essere accolte. Per almeno 6 mesi prorogabili. Il richiedente asilo è accolto per tutto il periodo dell’iter della richiesta e i sei mesi d’inserimento iniziano quando riceve il permesso definitivo».

Nelle precedenti interviste abbiamo parlato di una maggiore incisività da parte del Sistema Centrale nel monitoraggio dei progetti e del bisogno che ci sarà di rafforzare e incentivare, anche su base regionale, la formazione. Quali altre novità vi apprestate ad introdurre?

«Da una parte, noi continueremo nella nostra funzione di coordinamento assistenza e monitoraggio, dato che siamo stati costituiti per legge con questa funzione. Per riuscire a seguire meglio il territorio, ci doteremo di referenti locali, dato che non possiamo essere efficaci se rimaniamo solo con una sede centralizzata. È ancora troppo presto per dare indicazioni più precise. Da quando si è creato il Tavolo di Coordinamento Nazionale per l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati, si è sentita l’esigenza di creare anche dei tavoli regionali. Dove c’erano, sono stati confermati, dove non c’erano, si sta andando verso la loro istituzione. In alcune Regioni (Toscana, Emilia Romagna e Umbria) questi tavoli sono nati durante l’Emergenza Nord Africa (Ena) e hanno deciso di adottare le linee Sprar di loro volontà. Altri sono nati in coda all’Ena, in Sicilia, Calabria, Piemonte (c’era già ma senza la Regione) e in Lombardia, altri ancora si stanno formando. Quindi, ne emerge un maggiore coinvolgimento a livello territoriale».

Un’altra novità, di cui si sta parlando, sono gli hub. Che cosa sono?

«Se n’è iniziato a parlare dopo l’Ena. Sono stati formalmente inseriti nei documento approvati in conferenza unificata nel Tavolo di Coordinamento Nazionale per richiedenti asilo e rifugiati come obiettivo da raggiungere. Dovrebbero sostituire i Cara ed essere dei centri di prima accoglienza dove trasferire le persone appena arrivano, per un breve periodo. La loro distribuzione sarebbe preferibilmente regionale, di piccole dimensioni, massimo 100 presenze per un periodo di un mese o due mesi, per poi trasferire i migranti all’interno di un progetto il più attiguo. Non sarà realizzabile in breve termine e non saranno all’interno dello Sprar. Stando a quello che è stato fino ad oggi definito, c’è la necessità che questi hub siano gestiti in stretto raccordo con gli enti locali e non direttamente dalle prefetture, e ci dovrebbe essere un coordinamento con il servizio centrale, che potrà fare da collante tra queste strutture e i progetti sul territorio».

Le Commissioni territoriali per la valutazione delle richieste asilo aumenteranno o almeno verranno rese stabili le sottocommissioni?

«Per legge, sono previste 10 Commissioni che possono attivare le sottocommissioni. Attualmente è stata approvata l’attivazione di altre nuove 10 commissioni, ma sono operative solo 5, mentre le altre cinque dovrebbero essere attivate. L’Unhcr ha avanzato una proposta di semplificazione del collegio giudicante, che però deve essere trasformata in legge. La semplificazione sarà d’obbligo, ma non sarà immediata».

Cosa mi può dire sulla prossima legge sull’asilo?

«Ci sono attualmente due proposte di legge. Non sarà facile fare una legge organica e rimettere insieme le varie normative spezzettate che attualmente regolano l’asilo. Bisognerà tenere conto di tante cose e rispondere alle esigenze che fino ad oggi non sono state considerate».

Attualmente, nella quotidianità, l’asilo è ampliamente regolato da circolari. Quanto la nuova legge riuscirà ad evitare il ricorso a questa pratica, che ha generato confusione e discrezionalità negli anni passati?

«La nuova legge, magari, toccherà i vari temi che attualmente stanno creando problemi, ma quello che farà la differenza sarà il successivo regolamento di attuazione, che andrà poi a definire gli aspetti più tecnici. E più sarà preciso, tale da non lasciare vuoti legislativi, che poi potranno dare adito a interpretazioni, più sarà facile non utilizzare le circolari».

In Italia, nel 2013 sono arrivate 42.777 persone dalle frontiera marittima. Da quello che si è visto negli ultimi mesi, però, sembra che molti cerchino di non farsi identificare, in modo da poter andare in altri paesi europei, utilizzando quindi l’Italia non come punto di arrivo, ma come paese di transito? A voi cosa risulta?          

«Non abbiamo idea, di preciso, di quanti siano coloro che non si sono fatti identificare, ma di sicuro, stiamo parlando di diverse migliaia. Questo fenomeno è in effetti in forte aumento. Prima abbiamo avuto casi, durante l’Ena, di persone che dopo l’identificazione se ne sono andati in altri paesi, e infatti abbiamo moltissimi casi Dublino, cioè persone che, in base al Regolamento Dublino, vengono rinviate in Italia, in quanto di nostra competenza».

Come si fa a contrastare questa tendenza all’abbandono del nostro paese?

«Non tutti se ne vanno prima dell’identificazione. Alcuni se ne vanno via dopo aver verificato che ci sono delle criticità. Bisognerebbe risolverle, come stiamo tentando di fare adesso. Bisogna creare un vero sistema d’accoglienza omogeneo, di qualità omogenea, a cui tutti possano accedere. Attualmente c’è troppa casualità che rende il sistema non equo. Accanto a progetti molto validi, ne abbiamo altri che invece non sono di buon livello, altri ancora che sono improvvisati. Non è possibile avere dei livelli diversi di accoglienza. Poi c’è bisogno di un ulteriore passo che riguarda i servizi esterni all’accoglienza che riguardano la residenza, il servizio sanitario o le riqualificazioni professionali. Che ci piaccia o no, se lasciamo delle persone vivere nel nostro Paese, bisogna poi garantire una serie di diritti e servizi. Ad esempio, la difficoltà di poter convertire i titoli di studio o di continuare la formazione nel nostro paese. Quello dei riconoscimenti del titolo di studio è sempre stato un enorme ostacolo all’integrazione. Ci sono tante persone che vorrebbero rimanere in Italia, ma poi si devono arrendere quando non ricevano ciò che gli dovrebbe spettare».

Quali cambiamenti bisognerebbe attuare a livello europeo?

«Il ricongiungimento familiare è un punto importante. Non possiamo considerarlo con uno schema eurocentrico. Non tutte le culture considerano come famiglia solo il nucleo ristretto composto da genitori e figli. Per molte persone africane e asiatiche la famiglia è allargata e dobbiamo permettergli di ricongiungersi. Così come è concepito adesso il sistema, non va bene. Poi, sarebbe bene che ogni paese prendesse delle quote di rifugiati in base proporzionale alla popolazione, ma non tutti a questo riguardo sono d’accordo».

Quanti posti di lavoro creerà l’ampliamento dello Sprar?

«Non ho questo dato al momento, ma possiamo provare a fare una stima. I progetti sono 456, alcuni dei quali hanno anche più di un ente gestore, per cui facciamo 500. Solitamente, un progetto piccolo, di 15 posti, dà lavoro ad almeno 4 persone. Ma poi bisogna considerare anche i progetti grandi da 25, 45 posti e oltre».

Quindi, si può dire che lo Sprar darà lavoro a qualche migliaio di persone?

«Sì, si può dire di sì».

Francesca Materozzi