Cattive notizie

Rottamata anche l’integrazione

- 24 Febbraio 2014

rottamazione-kymco-300x198Alcuni lo temevano ed è successo. Il primo timido passo verso una qualche forma di confronto sul tema immigrazione – inteso come grande questione sociale e non come “problema”, dunque come fenomeno da gestire e non da “controllare” – è stato cancellato: non c’è più un Ministero dell’Integrazione. Tutto, o quasi, di ciò che ha a che fare con l’immigrazione sarà totalmente di competenza del Ministero dell’Interno.

Senza neanche una valutazione, una spiegazione, una parola, il Rottamatore ha fatto sparire questa esperienza. Che, intendiamoci, rappresentava solo un primo, timido passo avanti. Sì, perché le competenze che erano state attribuite a questo dicastero senza portafoglio (ossia senza fondi) erano veramente poche: integrazione, politiche giovanili, servizio civile nazionale, adozioni internazionali, antidiscriminazione razziale, strategia di inclusione di Rom, Sinti e Caminanti. Ben poca cosa se si pensa a quanto invece è affidato al Viminale.

La speranza data da questa apertura era che si andasse verso un progressivo allargamento delle competenze e dell’attribuzioni di questo Ministero, che gli venissero conferite delle risorse economiche per poter veramente intervenire. In campo, per chi ha voluto sperare, c’era anche la trasformazione in un “Ministero dei Diritti”, che in qualche maniera potesse partecipare con maggiori competenze in sede di Consiglio dei Ministri.

Un’altra “aspettativa tradita” è la mancata conversione in legge delle proposte di iniziativa popolare sulla modifica dell’accesso alla cittadinanza e sul diritto di voto per i migranti. Questi progetti, presentati dalla campagna L’Italia sono anch’Io, avevano mobilitato decine di associazioni raccogliendo, ciascuno, circa 110.000 firme in tutta la penisola.

Asilo. Tutto tace e molto cambia In realtà in questi mesi molte cose sono cambiate. Tra queste, la trasformazione più rilevante, se non altro per dimensioni, è stata l’allargamento del sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, conosciuto con l’acronimo “Sprar”, dagli originari 3.000 posti ai circa 13.000 attuali. Nel nuovo bando sono stati coinvolti 367 progetti ordinari rispetto ai 111 del triennio precedente.

Questo ampliamento era già cominciato nel 2013. Pian piano, per via amministrativa, era stata richiesta agli enti locali la disponibilità ad allargare i progetti, e prima ancora che uscissero i bandi si poteva già contare su quasi 5.000 posti in più, poi confermati e ulteriormente allargati su bando. Di tutto questo, che è senza dubbio un cambiamento positivo, si sono occupati gli uffici del Ministero (dell’Interno), i tecnici del settore e gli enti locali, in via amministrativa e senza alcun dibattito politico.

Va invece considerato che un simile ampliamento interessa non solo i Comuni, le associazioni e le cooperative direttamente coinvolte nei progetti, ma anche le popolazioni locali. Tutto ciò dovrebbe spingere ad un ripensamento dell’accoglienza, delle sue finalità e dei suoi metodi. Eppure, anche su questo manca del tutto un dibattito politico trasparente: l’Italia sta provvedendo a recepire la direttiva europea del 26 giugno del 2013, che di questo tratta, nel silenzio generale.

La stessa situazione si sta riproponendo per quanto riguarda la legge sull’asilo politico. L’Italia attualmente ha una normativa dettagliata e articolata, che però è quasi esclusivamente il frutto del recepimento di direttive europee. Da più parti si chiede una modifica di queste norme, e l’emanazione di una vera e propria “legge organica” sull’asilo. A ottobre è stata presentata una proposta di legge dell’On. Giacomelli. Non sarebbe il caso di parlarne, di condividerla, di aprire un dibattito politico?

Lascia perplessi che tutto ciò che riguarda l’asilo sia trattato a livello tecnico-amministrativo. Una legge che prevista dell’articolo 10 della Costituzione non dovrebbe aprire un dibattito pubblico? Sembra strano che la politica, che per tanto tempo ha utilizzato i temi legati all’immigrazione in chiave propagandistica e demagogica, quando finalmente sembra affrontarli in maniera costruttiva, non ritenga necessario aprire un dibattito pubblico.

Le politiche sugli ingressi: frontiere chiuse Un altro nodo che sembra letteralmente “dimenticato” riguarda l’ingresso e il soggiorno dei migranti. In materia di ingressi, le politiche restano quelle fissate più di dieci anni fa con la legge “Bossi-Fini” (e prima ancora con la “Turco-Napolitano”): si può entrare in Italia per turismo, o per lavoro, o ancora attraverso il canale del “ricongiungimento familiare” (cioè per andare a vivere con il coniuge o con un parente stretto già residente sul territorio). Ma le maglie sono strette, e le regole rigidissime, tanto che effettuare un ingresso regolare risulta spesso impossibile.

Chi viene in Italia per turismo, ad esempio, non può rimanere oltre i tre mesi di validità del visto: anche in presenza di una regolare assunzione, non è possibile prolungare il soggiorno. I ricongiungimenti sono ostacolati da norme letteralmente proibitive: per chiamare un proprio familiare bisogna disporre di un reddito sufficiente, di un alloggio “idoneo” (cioè abbastanza grande e non sovraffollato), nonché dell’autorizzazione del proprietario di casa e di una “attestazione” del datore di lavoro.

Gli ingressi per lavoro, infine, sono disciplinati da decreti annuali, che stabiliscono le “quote massime” di stranieri autorizzati ad entrare in Italia. Recentemente, i tecnici del Ministero del Lavoro hanno elaborato un documento che chiede di non emanare ulteriori decreti: e in effetti da almeno due anni le “quote” riguardano solo settori specifici del mercato del lavoro (stagionali, manonera qualificata, ecc.). Solo per fare un esempio, oggi è impossibile assumere un domestico chiamandolo dall’estero, come invece accadeva comunemente fino a qualche anno fa.

In questo modo – e, di nuovo, senza alcuna discussione politica – le frontiere sono state, di fatto, chiuse a ulteriori ingressi di lavoratori migranti. Benché la crisi economica abbia ridimensionato notevolmente la pressione migratoria, vi sono ancora aree del mercato del lavoro che hanno bisogno di manodopera straniera: il blocco quasi completo degli ingressi rischia così di alimentare l’economia sommersa e il lavoro nero.

Il soggiorno dei migranti in un’epoca di crisi Le norme in materia di immigrazione stabiliscono – come noto – un legame molto stretto tra il permesso di soggiorno e il lavoro. Chi è disoccupato può restare in Italia per un periodo massimo di un anno: successivamente, se non ha trovato lavoro, e se non ha un coniuge che possa mantenerlo, sarà costretto a tornare al suo paese.

Non è difficile capire l’effetto dirompente di queste disposizioni in un periodo di crisi economica: chi è stato espulso dal lavoro, e non è riuscito a ricollocarsi, rischia di perdere il permesso di soggiorno, e di cadere in una condizione di irregolarità da cui è assai difficile risollevarsi. I dati del recente Rapporto Unar sull’immigrazione ci dicono che nel solo anno 2012 un permesso su dieci non è stato rinnovato: in alcuni casi può trattarsi di cittadini stranieri che hanno scelto di tornare nei loro paesi, ma in larga misura il fenomeno riguarda immigrati che non hanno i requisiti per rinnovare i documenti.

Di fatto, la persistenza di norme restrittive in materia di soggiorno sta condannando migliaia di cittadini stranieri all’irregolarità: e, di nuovo, tutto questo accade senza alcun dibattito politico, in assenza di decisioni discusse e trasparenti, come semplice effetto di meccanismi burocratici.

Naturalizzazioni proibitive Infine, un ultimo tema finito nel “cono d’ombra” delle scelte burocratiche è quello delle cosiddette “naturalizzazioni”, cioè delle acquisizioni di cittadinanza italiana da parte di migranti che risiedono da lungo tempo in Italia. La legge in materia risale al 1992, dunque ad un’epoca che può essere considerata “preistorica” dal punto di vista dei fenomeni migratori nel nostro paese. Le norme attualmente in vigore prevedono un periodo minimo di residenza continuativa prima di poter richiedere la cittadinanza, ma conferiscono ampi margini di discrezionalità agli uffici ministeriali nell’esame delle domande.

Così, sulla base di semplici circolari amministrative, il Viminale ha deciso di imporre limiti di reddito ai richiedenti: per dirla in termini semplici, chi non è abbastanza ricco non può diventare cittadino italiano. In più, negli scorsi anni si sono consolidate prassi ai limiti dell’incostituzionalità: Alessandra Ballerini ha denunciato ad esempio il caso di domande respinte a persone di fede non cattolica (di solito musulmani praticanti). Per il Ministero, insomma, solo i cattolici ricchi meritano di essere italiani: e menomale che non è richiesto, per ora, il requisito della pelle bianca…

La scelta dei requisiti necessari per ottenere la cittadinanza è un nodo fondamentale delle politiche di integrazione, anche perché rappresenta – in fondo – la risposta alla domanda “chi siamo, noi italiani?”. Non sarebbe necessario affidare scelte di questo tipo a un dibattito pubblico e trasparente, anziché all’opacità delle decisioni burocratiche?

In materia di immigrazione, insomma, il nuovo Governo muove i primi passi sotto il segno di un grande silenzio. Sembra quasi che il nostro paese sia capace di discutere (male) di questo tema solo in occasione delle periodiche “emergenze” (emergenza sicurezza, emergenza sbarchi, emergenza profughi…): la “normalità” di un fenomeno che dura ormai da venticinque anni non suscita interesse da parte di chi ci rappresenterebbe.

Sergio Bontempelli, Francesca Materozzi