Etnopsichiatria

Alì, lieto fine con dei ma

Giovanna Vaccaro - 10 Marzo 2014

imagesAlì ha 28 anni, viene dal Pakistan ed è arrivato in Italia lo scorso agosto. Al suo ingresso nel Cara di Caltanissetta, i militari che piantonano l’entrata hanno requisito gli psicofarmaci che aveva con sé, dopodiché, nonostante tra la sua documentazione ci fosse anche la prescrizione di un medico psichiatra, nessuno degli incaricati all’assistenza alla persona che lavorano nel centro ha ritenuto di dovergli garantire un supporto specifico. Per lui solo una consulenza psicologica di prassi, dalla quale non è emerso alcun disagio psichico.
Così, dal quel momento, in quel luogo in cui, data la sua vulnerabilità, non avrebbe neppure dovuto transitare, Alì è costretto ad interrompere la terapia dei farmaci che assumeva per gli importanti disturbi di natura psichiatrica di cui soffre.
Nonostante la brusca interruzione della sua cura, per i primi tre mesi Alì sta bene e grazie al suo ottimo inglese, riesce anche ad essere di aiuto per alcuni connazionali che vivono con lui nel centro, comunicando per conto loro con il personale (sopperendo così alla mancanza di un mediatore culturale che parli la lingua urdu). Finché, il mese scorso, il suo malessere trascurato da ormai troppo tempo inizia a manifestarsi in maniera sempre più forte e così, Alì smette di parlare… e anche di mangiare, di bere, di vestirsi e di lavarsi, se non viene direttamente stimolato dagli amici. Questi cercano continuamente di attirare l’attenzione dei medici e del personale del centro sulla condizione dell’amico, ma neanche l’evidente stato di catatonia in cui è caduto Alì è sufficiente a fare in modo che qualcuno intervenga. La risposta dei dottori è sempre la stessa: se non è Alì ad esprimere direttamente il suo malessere, nessuno può fare niente… quindi, non conta neppure lo stato di mutismo legato alla sua condizione psichica.
Finalmente, lo scorso 13 gennaio, Alì viene accompagnato ad una visita neurologica presso l’ospedale di Caltanissetta. Nel referto dello specialista si legge a chiare lettere la diagnosi di disturbi di linguaggio di verosimile origine psichiatrica e l’indicazione della necessità di una consulenza specialistica. Ma il giorno dopo Alì è fuori dal Cara nisseno, in località Pian del Lago, con un permesso di soggiorno di tre mesi.
Lo abbiamo incontrato quello stesso pomeriggio. Era nell’accampamento spontaneo in cui vivono numerosi richiedenti asilo costretti ad attendere settimane solo per essere identificati e mesi per poter entrare nel centro. Lo abbiamo notato tra tanti perché se ne stava immobile su di un materasso mentre i suoi amici gli allacciavano le scarpe, poi lo alzavano in piedi, gli sistemavano la giacca, gli asciugavano il naso e la bocca. Quando ci siamo avvicinati, ci hanno raccontato tutta la storia mentre, prendendolo per mano, si accingevano ad accompagnarlo alla stazione dei pullman, con la speranza di trovarvi un connazionale a cui poterlo affidare per il viaggio verso Roma, dove, una volta giunto, un suo zio avrebbe provveduto a rimandarlo in Pakistan… perché ormai, nessuno sapeva più cosa fare per lui. Nel caso non avessero trovato nessuno quella sera, lo avrebbero portato a passare la notte nell’accampamento e poi riprovato a tornare in stazione il giorno dopo e il giorno dopo ancora, finché non fossero riusciti a trovare qualcuno che si potesse prendere cura di lui durante il viaggio.
Alì non ha passato né quella né altre notti nell’accampamento e ora sta ricevendo le cure di cui ha bisogno. Il danno causatogli dalle sterili prassi di cura dei centri di accoglienza, tarate su numeri anziché su persone, nel suo caso è stato recuperato (almeno a livello clinico). È tornato a parlare, a mangiare e vestirsi da solo, ha riacquisito le sua capacità di intendere e di volere e deciderà in prima persona cosa sarà meglio fare.
Alì ha avuto questa possibilità perché qualcuno si è accorto di lui, ma quanti Alì rimangano invisibili, o diventano visibili quando ormai è troppo tardi?
Certe storie non possono offrire la catarsi al pari delle tragedie greche, in cui eroi sacrificano se stessi in nome della sopravvivenza di un valore universale. In quanto espressione degli anti-valori di un presente in atto, raccontare storie del sacrificio di essere umani ridotti ad anti-eroi dalla permanenza nei luoghi della non-vita, può solo rivelare il dramma dell’esistenza nei centri governativi della non-accoglienza e rivendicare la necessità di un cambiamento.

Giovanna Vaccaro (Borderline Sicilia)