Roma

L’8 marzo delle filippine

- 10 Marzo 2014

Una Giornata Internazionale della Donna, in cui si può stare insieme, ridere, cantare, ma che non è una festa. Intanto perché ci si può ritrovare insieme, uomini e donne, solo il giorno dopo, una domenica 9 marzo in cui il pomeriggio non si lavora. Le donne, giovani e meno, sono soprattutto domestiche e la loro settimana è scandita da ritmi di lavoro inaccettabili, spesso da schiavi. Nei locali dell’Associazione Art. 3, in quello che a Roma chiamano “quartiere africano” per via di una toponomastica basata sul passato coloniale italiano, l’associazione di donne filippine Umangat ha deciso di celebrare, in coincidenza, la data dedicata alle donne e il sedicesimo anno di vita della propria organizzazione in Italia. Una occasione per parlare, testimoniare e raccontarsi, le storie si alternano alle canzoni tradizionali, a video in cui si mostrano manifestazioni di donne, in una atmosfera serena ma combattiva. Ci sono le tradizionali mimose regalate alle donne che intervengono ma spariscono di fronte alle vicende raccontate. Che dire del cipiglio di una ex ingegnere che, nella sua città di origine, un tempo aveva sotto di sé una squadra di funzionari rigidamente uomini e che ora si guadagna da vivere facendo le pulizie in una casa romana? Che dire di un’altra che, dopo una lunga vita in Italia, si è dovuta separare dal marito e ha visto sgretolarsi il nucleo familiare, per poi doverlo ricostruire riavvicinando a sé i propri figli con una fatica immensa. Donne che sembrano condannate a badare alle case italiane, a subire le violenze e l’oppressione di rapporti di lavoro che le rende invisibili e prive di difesa, che le costringe a combattere ogni giorno. Donne abituate a dare del lei ad ogni italiano che incontrano: «Perché dovunque ho lavorato le signore pretendono che si faccia così». Spiega una, come se fosse impossibile immaginare rapporti confidenziali con gli autoctoni. Ma a catalizzare a lungo l’attenzione è stato il parlare emozionato e coinvolgente di Alaysia «La traduzione di Alessia» dice sorridendo. Alaysia è nata in Italia, da bambina è tornata nelle Filippine, mentre la madre e il padre restavano in Italia con altri due figli. Ad un certo punto ha provato a lasciare tutto, amici, zie, nonni, ed è arrivata in un Paese ormai sconosciuto. Un corso di italiano di un mese e poi gettata nel mondo della scuola, fra, caos, curiosità, interesse e difficoltà a capire chi era. Alaysia ha raccontato, alternando frasi in fluente italiano all’amato tagalog, i mille contrasti da adolescente sospesa fra due mondi, la difficoltà a comunicare anche con i suoi: «Mi sentivo una estranea, mia madre neanche sapeva quali cibi preferivo, non mi conosceva ed io ho cominciato a pensare di scappare, tanto loro erano contenti con i miei fratelli». Ma poi si è fatta forza, ha cominciato a costruire relazioni con altri giovani come lei che provavano lo stesso senso di smarrimento. Ha rialzato la testa e ora studia economia e commercio all’Università La Sapienza, si sente più forte, ha deciso che qui proverà ad affermarsi ma non fa piani a lunga scadenza. Il suo racconto è stato interrotto più volte da un applauso sentito; in chiusura ha trovato il tempo per ringraziare la zia che l’aveva quasi costretta a parlare. «Sì, parlare e raccontarsi fa bene – confessa – l’ho imparato ricostruendo i rapporti con la mia famiglia ed ora non voglio più restare estranea alle cose che accadono, voglio aiutare a cambiarle, per me e per i tanti che stanno peggio di me».