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Said, undici volte Cie

Alessandra Ballerini - 10 Marzo 2014

®_archivio_monitor_50-1-CopiaAspetta. Aspetta è la risposta a tutte le domande. Aspetta è un invito. A volte un ordine. Aspetta è una condanna. O meglio, una parte di questa condanna senza reato che sono i Cie.
Oggi, 3 marzo, a Ponte Galeria sono 72 uomini e 15 donne (tra loro anche una somala, quindi in diritto di ricevere asilo) ad aspettare. Aspettano di uscire. Di tornare alle proprie famiglie, al proprio lavoro, alla propria casa. O di essere espulsi. Aspettano notizie dall’avvocato, la decisione del giudice o della commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Aspettano di essere visitati dal medico, di essere ascoltati dal magistrato, di ricevere visite o lettere dai familiari.
Said (nome di fantasia di un recluso reale come il suo sorriso e la stretta di mano), aspetta che il vento cambi e la ruota della fortuna inizi a girare senza schiacciarlo. Ha tra le mani una plico di documenti. Come tutti gli altri reclusi. Ma la sua pila di carte è più alta. Le raccoglie da più tempo. Quando lo incontro nei corridoi, tutti lo salutano chiamandolo per nome. All’inizio penso che sia un dipendente dell’ente gestore. È un bel ragazzo, parla un perfetto italiano colorato da un misto di accenti del nostro sud.
Ha festeggiato da poco il suo compleanno. Tra queste sbarre. Tra le sue carte ci sono diplomi e attestati. È pescatore, marinaio, bagnino. È loquace e ha mantenuto intatte eroicamente speranza e ironia.
Ileana Piazzoni, deputata di Sel che mi accompagna in questa visita, gli parla a lungo e mi dice che le ricorda qualcuno. È vero, Said ha un viso assolutamente familiare. Mi domando se le nostre strade si siano già incontrate in altri Cie o all’aria aperta.
Said ha “accumulato” undici Cie in neanche nove anni. «Gli operatori mi dicono che all’inizio sospettavano che fossi Fabrizio Gatti in incognita, sa, il giornalista dell’Espresso che entra nei centri e poi li fa chiudere».
Invece è “solo” un lavoratore tunisino che ha perso il permesso a causa di uno dei tanti tranelli burocratici della normativa sull’immigrazione, è tornato nel suo paese, ha aspettato un decreto flussi e la formale assunzione da parte del suo datore di lavoro, ha diligentemente chiesto e ottenuto il visto di ingresso dall’ambasciata italiana ed è tornato in Italia. È andato in questura, ha lasciato nuovamente le sue impronte digitali, ha intascato la ricevuta di permesso di soggiorno. E ha iniziato ad aspettare. Ma in questura hanno stabilito che il suo visto di ingresso era falso, gli hanno ritirato la ricevuta e il passaporto e gli hanno contestato un po’ di reati. Dopo tre anni di processi e irregolarità forzata, è stato assolto. Ma il visto (vero!) era ormai scaduto. E così ha continuato a lavorare, in nero, per lo più sulle barche. Ma ogni volta che ci sono controlli gli notificano decreti di espulsione e trattenimento, e lo rinchiudono. Ogni volta in un Cie diverso.
Il suo ultimo datore di lavoro continua a chiamarlo e lui si è inventato la scusa di una malattia per giustificare l’improvvisa e prolungata assenza, perché non vuole dire che sta dietro le sbarre come un criminale.
Ma dato che è coscienzioso, ha trovato un sostituto perché lo rimpiazzasse. Una vita, undici Cie.
Leggo che nei giorni scorsi è stata approvata una mozione che impegna il sindaco e la giunta capitolina… ad esprimere formalmente al governo nella sua interezza il proprio giudizio fortemente critico nei confronti della struttura ospitata all’interno del territorio, ritenendolo soprattutto un luogo sospensivo dei diritti fondamentali… ne chiede la chiusura e l’elaborazione di altre forme di accoglienza di carattere non reclusivo. Bene!
I diritti fondamentali di Said oggi sono sospesi per l’undicesima volta. Sarebbe davvero l’ora di smetterla.
Parliamo con gli altri trattenuti. Oggi sembra di stare in un ospedale da campo. C’è un signore senza un occhio, un ragazzo con la spalla rotta, il profugo libico che la settimana scorsa era quasi riuscito ad uccidersi impiccandosi ben imbottito di tranquillanti che vaga incerto e un altro giovanissimo appena trasferito dal Cie di Torino che deve essere operato per delle cisti dolorose e intime.
Nessuna bocca cucita oggi. Oggi si parla e tutti chiedono quando potranno uscire. E a tutti viene risposto di aspettare.
Aspettare che i diritti nel nostro bel Paese smettano di essere sospesi.
Mentre scrivo, il più affezionato dei reclusi di Ponte Galeria mi chiama quasi piangendo dalla gioia. Il gruppo di profughi sbarcati a Lampedusa a dicembre e rinchiusi nel Cie romano da oltre tre mesi è stato finalmente liberato. Gli chiedo di lui: ha ottenuto finalmente la sospensiva dal giudice.
“Forse.” Non osiamo finire la frase per scaramanzia.
Oggi è stata una buona giornata per chi è uscito ma non per chi è entrato e ha davanti a se 18 mesi di incubo.
Lassad mi chiede di fare qualcosa per un suo amico algerino rinchiuso insieme a lui e portato via dalla moglie e da due bambini piccoli, uno dei quali malato.
Dico che posso solo scriverne. E allora scrivi, mi ordina.
Il giorno più bello per me, mi confida, sarà quando il mio amico uscirà e potrà riabbracciare la sua famiglia.
Confidenza per confidenza, gli svelo che il giorno più bello per me sarà quando i Cie verranno definitivamente chiusi.
Intanto perché l’esperienza di Said come collaudatore di Cie non vada perduta lo nominerei subito sottosegretario al Ministero degli Interni.
Oppure costringerei ministri e sottosegretari a farsi rinchiudere almeno undici volte nei Cie.
Solo per capire.
Perché chiunque li visiti, se ancora conserva buona fede, onesta e lucida coscienza e rispetto dei diritti, non può che volerli chiudere.

Alessandra Ballerini