Letture Meticce

We Need New Names

Gabriella Grasso - 17 Marzo 2014

NVB-WNNN_2577358bIl suo vero nome è Elizabeth Zandile Tshele, ma come scrittrice lo ha cambiato in NoViolet Bulawayo. NoViolet significa “con le viole” in Ndebele, la sua lingua madre; Bulawayo è la sua città di origine, in Zimbabwe. Forse anche lei ha sentito il bisogno di un nuovo nome, come recita il titolo del suo libro di esordio We Need New Names (in Italia uscirà agli inizi di settembre per Bompiani). È la prima scrittrice nera africana, e la prima dello Zimbabwe a essere entrata nella lista dei finalisti del prestigioso Man Booker Prize nel 2013. Nata nel 1981, a 19 anni ha lasciato il suo Paese per gli Usa. Non vi ha rimesso piede per i 13 anni successivi. Poi vi è ritornata anche per presentare questo libro, bellissimo, che ha per protagonista una bambina, Darling, che come lei nasce in Zimbabwe e poi approda in Michigan.

Per Darling gli Stati Uniti sono Il Sogno. Partire è un sogno. Lei e il suo gruppo di amici dai nomi fantasiosi (come Godknows e Bastard) hanno tra i 10 e gli 11 anni e vivono in Paradiso: nome surreale per un agglomerato di baracche senza alcuna comodità. Abitavano in case vere, prima, con i muri e l’acqua corrente: prima che il loro quartiere venisse raso al suolo dal governo (nel 2005 il presidente Mugabe fece distruggere intere zone abitate, in un’operazione di “pulizia politica”, ndr). Sono bambini felici? A modo loro. Vivono isolati? Non proprio. Anche se non vanno più a scuola perché i professori hanno abbandonato la nazione, il mondo lo conoscono. Sanno che ci sono Paesi dove si sta bene (gli Stati Uniti, il Canada, la Francia, l’Italia) e altri dove non conviene essere nati: come il loro. Nel gioco che preferiscono, in cui ognuno sceglie un Paese da “essere” lo Zimbabwe (mai nominato con il suo nome) è il meno ambito: «Chi vuole essere un posto terribile dove si fa la fame e tutto cade a pezzi?». Sanno anche quali sono i marchi di scarpe più desiderabili (le All Star), le cantanti più popolari (Lady Gaga), le socialite internazionali: quando un gruppo di cooperanti di una Ong scatta decine di foto a Chipo, undicenne incinta, Darling commenta: «È come se fosse diventata Paris Hilton». Rubano frutti dagli alberi di guava del ricco quartiere Budapest, sia per riempire lo stomaco, sia per sfidare la sorte in un gioco infantile. Giocano perché sono bambini, ma hanno già perso l’innocenza: quando trovano una donna impiccata a un albero si spaventano, certo. Ma poi tornano indietro a rubarle le scarpe: sono in buone condizioni, possono essere vendute.

Sullo sfondo di un Paese dove si vive in bilico tra la rassegnazione e la speranza in un cambiamento politico, dove le nefandezze del passato coloniale appaiono, in prospettiva, quasi più giustificabili del presente («Meglio essere derubati dai bianchi che dai tuoi stessi fratelli neri», dice rabbioso uno degli adulti), i bambini incontrano lo sguardo dello “straniero” in quelli dei cooperanti che occasionalmente arrivano al Paradiso. «Gli piace scattare foto. Non gli importa che proviamo imbarazzo per i nostri abiti sporchi e laceri, che preferiremmo non lo facessero: ci fotografano comunque. Noi non protestiamo, perché dopo le foto arrivano i regali». Tra questi, delle pistole giocattolo. C’è del grottesco in questo ribaltamento di prospettiva: l’incontenibile voglia dei bianchi di “aiutare l’Africa”, il loro credere (magari in buona fede) di poter stabilire un’empatia autentica elargendo doni e sorrisi, visti attraverso lo sguardo acuto di Darling, fanno rabbrividire di vergogna. Lei non sembra giudicare, quanto osservare e basta. Lo farà anche tempo dopo quando, una volta negli Stati Uniti, a un matrimonio, una donna bianca le chiederà gli occhi che le brillano di esotismo: «Sei africana? Mi dici qualcosa nella tua lingua? Ah, laggiù è bello, vero?». Dove “laggiù” è un altrove indistinto, idealizzato, di cui si conoscono per sentito dire bellezza e disperazione, un luogo mitico da amare o disprezzare, raramente da accettare nella sua complessità.

NoViolet Bulawayo ha dichiarato in un’intervista: «Quando ho lasciato il mio Paese non avevo mai pensato che questo avrebbe comportato un adattamento, e nemmeno Darling ci pensa. Quando è in Paradiso e sogna gli Stati Uniti, non considera mai i costi: li scopre solo una volta giunta a Detroit». Arrivata da poco, bloccata a causa della neve in casa della zia che la ospita, è consapevole di quello che ha guadagnato partendo, ma inizia pian piano a comprendere anche ciò che ha perso. «C’è cibo da mangiare, qui, ogni tipo di cibo. Ci sono volte, però, in cui non importa quanto io mangi, non mi fa niente, sono affamata del mio Paese e per questo non c’è una soluzione». Man mano che i mesi passano, Darling continua a osservare la realtà che la circonda con sguardo chirurgico: il frigorifero sempre pieno nonostante la zia sia perennemente a dieta, l’obesità diffusa, un Presidente giovane (mentre il suo, a casa, non ne vuole sapere di morire), l’atteggiamento permissivo e attento nei confronti dei minori (la zia non le impone mai niente, le chiede sempre cosa le faccia piacere. E quando lei reagisce ai capricci di un bambino picchiandolo, viene fulminata con lo sguardo, quasi avesse commesso un crimine contro l’umanità). Poi, con il tempo, passata la sensazione di diversità ed emarginazione a scuola, trovate delle amiche di origine africana come lei, Darling si affaccia all’adolescenza seppellendo la nostalgia in un angolo del cuore.

Ci sono due capitoli (How they left e How they lived) che sono forse i più potenti del romanzo, in cui l’autrice smette per qualche pagina di seguire Darling e allarga lo sguardo fino a includere tutti i migranti del mondo. Quelli che partono «lasciando il loro cordone ombelicale seppellito sotto il suolo, lasciando le ossa degli antenati nella terra, lasciando tutto quello che li rende ciò che sono, partendo perché non è più possibile restare. Non saranno mai più gli stessi, perché semplicemente non puoi più essere lo stesso una volta che ti sei lasciato dietro chi e cosa sei, semplicemente non puoi essere lo stesso». Quelli che quando arrivano in America prendono in mano i loro sogni, li guardano «teneramente come fossero neonati» e li mettono da parte, sapendo che non si avvereranno mai. Nessuno di loro diventerà medico, avvocato, ingegnere: non ci sono i soldi per studiare. Sono entrati nel Paese con un permesso di studio e ora lavorano illegalmente. Per paura di essere scoperti, vivono appartati, nascondendo i propri nomi. Poi partoriscono dei figli con preziosi certificati di nascita statunitensi e gli danno nomi americani, che niente abbiano a che fare con le loro origini. E vivono così, senza mai dimenticare.

Darling è una ragazzina con un fortissimo istinto di sopravvivenza. Quando alla fine del libro la lasciamo, siamo sicuri che, negli Usa o altrove, saprà costruirsi una vita decente. Ma siamo altrettanto certi che resterà, per sempre, un’anima divisa in due.

Gabriella Grasso