Europa

Accoglienza alla maltese

Stefano Galieni - 17 Marzo 2014

Photo-_MOC-outside-mochome-400xPer il richiedente asilo che sbarchi a Malta esistono due possibilità: se la domanda viene accettata, si entra nei cosiddetti centri aperti. Se rifiutata si passano fino a 18 mesi in un centro di detenzione, in attesa di essere liberati o rimpatriati.  Open Center e Detention Center sono luoghi profondamente diversi ma entrambi lasciano poche speranze.

Open Center Se ne stanno fuori, fra le banchine del porto. Qualcuno guarda le barche malconce ormeggiate in un angolo, altri fanno acquisti a un banco di frutta e verdura all’ingresso del centro. Sono le prime ore del pomeriggio, molti tra i rifugiati sono in giro per la città, a rimediare lavoro o soldi. Alcuni, con il caschetto protettivo in testa, stanno lavorando alla ristrutturazione dello stabile. Pochi passeggiano, due stanno giocando a biliardo nel piccolo bar. Siamo al Marsa Refugee Open Centre a Malta, a pochi chilometri a sud de La Valletta, in una cittadina che porta appunto il nome di Marsa (Il porto). Si tratta di uno dei sei centri aperti gestiti direttamente dal governo, tramite l’Oiwas (Organization for Integration and Welfare of Asylum Seekers). Altri due centri sono gestiti direttamente da Ong, mentre uno è governativo ma dato in appalto ad una organizzazione umanitaria. Quello di Marsa è arrivato ad ospitare oltre 1.000 persone su una capienza effettiva massima di 400 posti. Ma in questo inizio di marzo, quando il mare spesso è agitato e il vento soffia potente nel tratto di mare che separa il Nord Africa dagli avamposti europei, come Malta e Lampedusa, la presenza diminuisce.

Il Centro di Marsa, aperto nel 2002 in una palazzina a 3 piani che un tempo fungeva da scuola, è in piena ristrutturazione. Nell’ala più imponente fervono i lavori, si stanno rifacendo porte e finestre. Il direttore, Alexander Torthell afferma con rassegnazione che urgono lavori in continuazione. E visitandone gli spazi si comprende il perché. Pareti scrostate nella piccola sala che funge da infermeria, un ambulatorio aperto 3 volte alla settimana dalle 17 alle 20, l’orario di ritorno di quasi tutti gli ospiti al centro. Fuori degli orari di visita le alterantive sono o il Floriana Health Center o, in caso di emergenze, un’ambulanza. Anche le insegne della moschea e della chiesa coopta soffrono per l’usura del tempo. Per i cittadini maltesi questo e gli altri centri aperti sono ghetti per neri. «Agli ospiti diamo un tesserino con la foto – spiegano i responsabili – funge da documento per poter rientrare. Un modo per impedire che entrino estranei. Possono fare ciò che vogliono, l’importante è che non siano ubriachi o molesti».

Sono solo uomini e tutti giovani, in gran parte provengono dalla Somalia (65%) e dagli altri Paesi del Corno d’Africa, qualcuno dal Sudan e dalla Nigeria. Se poi si prendono i dati relativi al 2013 per tutta l’isola, il 95% dei profughi afferma di essere partito dalle coste libiche, il 38% è somalo, il 32% eritreo e il 24% siriano. Frank è un omone nigeriano, racconta di avere 25 anni e di essere arrivato in agosto dalla Libia. Ha trascorso alcuni mesi in un centro di detenzione e poi, ottenuto l’asilo, è stato trasferito a Marsa. «Qui mi trovo bene – racconta – ma vorrei andare in Inghilterra dove ho i parenti e potrei lavorare. Qui non c’è nulla. Io non voglio fare cose illegali ma è difficile trovare altro e se non hai dei soldi non ti puoi muovere». «Non vogliono restare – insiste il direttore – e hanno anche ragione, ma poi ce li rimandano indietro. Alcuni tornano non perché costretti, ultimamente sono tornati alcuni che in Italia non si erano trovati bene». Nel 2012 sono transitate per Marsa circa 2.100 persone, in questi giorni, in tutti i centri Oiwas risultano esserci 960 persone. I dormitori possono ospitare da 16 a 40 persone e spesso il cibo viene cucinato e consumato all’interno delle stanze; i bagni comuni sono nei corridoi. Rientrando nel bar, Ahmed, capelli ricci e sguardo serissimo, prova un difficile colpo di biliardo e riesce a mandare in buca due palle. Esulta e ci guarda trionfante. Una piccola gioia.

malta detention centerDetention Center Tutt’altro clima nei centri di detenzione: qui le rivolte si susseguono. A fine febbraio ce n’è stata una al Lyster Barrack Detention Center, il centro più famoso. che si trova all’interno di una caserma sorvegliata dal 1° reggimento dell’esercito, nella zona di Far Hall. Per sedarla sono state usate pistole per stordire e pallottole di gomma. Alla fine ci sono stati sette arresti: un ghanese e sei nigeriani, di età compresa fra i 17 e i 31 anni. L’opinione pubblica si è spaccata tra chi vorrebbe migranti e richiedenti asilo in galera e chi condanna la brutale repressione operata dalla polizia. I due partiti maggiori a Malta difendono la necessità di mantenere in piedi il sistema di detenzione. I laburisti, oggi al governo, parlano di misura necessaria per ragioni di sicurezza e rischi connessi al terrorismo. «Miglioreremo le condizioni di detenzione», ha dichiarato il ministro dell’Interno Manuel Mallia, che promette di lavorare, nella continuità, ad una radicale riforma del sistema. Jason Azzopardi, responsabile degli affari interni del Partito Nazionalista, è netto: «Dobbiamo assolvere agli obblighi internazionali in materia di diritti umani, ma il nostro popolo va garantito. La revisione del sistema va fatta, soprattutto a seguito della morte di un cittadino maliano nel 2012. Noi avevamo messo in piedi una struttura per la rifoma ma il nuovo governo ha rimosso tutti i funzionari». Resta il parere contrario di Alternativa Democratica, un piccolo partito ecologista, fuori dal parlamento, molto attivo in materia di diritti umani. Secondo AD la limitazione della libertà personale (non la deprivazione della stessa) deve essere attuata solo in casi estremi, come dalla direttiva europea del 2008. Poi vanno offerte opportunità indicative e di inserimento. Sempre secondo AD, in crescita alle elezioni dello scorso anno, richiedenti asilo e migranti irregolari potrebbero firmare regolarmente alle stazioni di polizia, per garantire la loro presenza ed essere sottoposti a controlli sanitari obbligatori con un sistema più umano e efficace di accoglienza.

Ad inizio marzo, sei Ong attive, in materia d’accoglienza, hanno criticato il governo per non averle coinvolte nella elaborazione delle proposte di riforma. «Malta deve partire dal fatto che la libertà personale è una regola e la detenzione un eccezione. Deve definire esattamente ciò che lo Stato può fare e non può fare con le persone», dice un loro portavoce, Neil Faizon. «Al massimo la si può limitare per il primissimo screening, ma sotto la supervisione dell’autorità giudiziaria. Ma vanno stabilite norme che garantiscano i diritti umani». Secondo l’Unhcr detenere i richiedenti asilo (che a Malta sono l’82% dei migranti che arrivano) è una disposizione illegale e arbitraria (solo l’Australia adotta norme simili). Si potrebbe chiedere a chi arriva, data l’esiguità dello spazio dell’isola, di fornire rapporti regolari sulla propria permanenza, adottare la residenza obbligatoria nei centri di accoglienza aperti, assegnare un garante ad i richiedenti asilo. Si potrebbe anche, in alcuni casi, chiedere una cauzione a chi è sbarcato. Ma vanno garantite speciali sistemazioni per donne, minori non accompagnati e nuclei familiari. A Malta si effettuano controlli sull’età e lo status dei singoli a partire dai 12 anni. Il governo tace, mentre il Partito Nazionalista soffia sul fuoco, identificandosi con un sentire popolare che considera i profughi dannosi per gli interessi del Paese. Nello stesso partito c’è chi ritiene la detenzione un deterrente agli sbarchi e chi ammette candidamente che i dati smentiscono tale ragionamento. Nella pubblica opinione manca l’informazione necessaria, è ignoto, ad esempio, che in molti fra i rifugiati provino a partire negli Usa dove hanno più prospettive. I commentatori politici del Times of Malta, il quotidiano in inglese più diffuso nell’isola, sostengono che molti di coloro che odiano i rifugiati non hanno mai parlato con nessuno di loro. Intanto, dopo la rivolta nel centro di detenzione è partita una inchiesta indipendente sull’operato delle forze dell’ordine, in molti, al di là delle opinioni in merito, vogliono evitare di vedere mobili spaccati e persone ferite al solo scopo di segnalare una condizione di sofferenza.

Stefano Galieni