Piccole infamie

Il colore della cittadinanza

stefano galieni - 23 Marzo 2014

altanAndrès vive in Italia da oltre venti anni. Cuoco provetto, sguardo perennemente irriverente e una vita dedicata all’attivismo antirazzista. Ha l’anima del provocatore e quando – capita spesso – viene fermato e gli viene chiesto il permesso di soggiorno risponde candidamente: «Non ce l’ho!». E lì parte una routine che Andrès vuole scientemente scatenare: agenti di polizia o dei carabinieri che confabulano, poi, di solito il più alto in grado, che gli indica di salire sulla volante fino a quando lui, sempre in maniera educata, chiede di poter prendere il portafogli, estrae la carta di identità con su scritto “cittadinanza italiana” provocando le reazioni più disparate. A volte le persone che lo hanno fermato lo redarguiscono con cortesia, altre volte reagiscono male e lui, mantenendo un micidiale distacco risponde: «Siete voi che mi avete chiesto un documento che non ho da 9 anni. Che ci posso fare se si vede che vengo dall’America Latina?». A quel punto di solito lo lasciano in pace ma prima o poi ricapita. La sua è una modalità relazionale cosciente e rischiosa ma che risulta funzionale ad una scelta didattica. «Debbono imparare a capire che anche in Italia ci sono cittadini che non sono bianchi. Lo dico anche per loro». È solito dire: «Io posso farlo e lo faccio perché non mi può accedere fare nulla – dichiara sfrontato – almeno qualcosa capiscono». Un esempio normale di come i tratti somatici delle persone producano, anche in molti rappresentanti delle istituzioni, elementi di pregiudizio. Il colore della pelle, soprattutto se non accompagnato da un abbigliamento di alto stile, innesca, come immediato riflesso, la richiesta di documenti attestanti la regolarità della presenza sul territorio. Niente di strano, chi è adibito a servizi di ordine pubblico, seleziona su criteri sperimentati nel passato, gli elementi da controllare con maggiore attenzione.

Ne raccontava tempo fa alla stessa maniera il calciatore Liliam Thuram, nazionale francese e affermato campione in squadre titolate come la Juventus e il Parma. Raccontava di come soleva durante i viaggi, accodarsi a persone meno famose ma dalla pelle nera, coprendosi la testa con il cappuccio di una felpa. Immediatamente veniva fermato e controllato salvo poi essere riconosciuto e ricevere scuse in ogni possibile modo. Due vicende fra le tante che si possono prendere per provare a tracciare una componente, forse non nuova, di quei pregiudizi che fra gli studiosi di scienze si definiscono fenotipici, ovvero fondati sulle diversità genetiche che rendono variabili la pigmentazione dell’epidermide. Pregiudizi e comportamenti di fatto discriminatori che però sono considerati normali e accettabili, ma che a volte, troppo spesso si traducono in comportamenti violenti, in insulti, percosse fino a sfociare negli omicidi.

Lo scrittore milanese Pap Khouma queste vicende le ha sperimentate sulla sua pelle. Nel 2006 venne aggredito da quattro controllori dell’Atm (l’azienda dei trasporti pubblici) e finì al pronto soccorso. Pap racconta spesso episodi meno cruenti mischiando commiserazione, ironia e amarezza: «Ricordo un’occasione in cui, in una sede decentrata del Comune di Milano, una funzionaria si stupì del fatto che potessi avere la carta d’identità italiana e chiamò in aiuto altre due colleghe che accorsero lasciando la gente in fila ai rispettivi sportelli. Il loro dialogo suonava più o meno così. “Mi ha dato la sua carta d’identità italiana ma dice di non avere il permesso di soggiorno. Come è possibile? Come hai fatto ad avere la carta d’identità, se non hai un permesso di soggiorno… ci capisci? Dove hai preso questo documento? Capisci l’italiano?”. “Non ho il permesso di soggiorno”, mi limitai a rispondere. Sul documento rilasciato dal Comune (e in mano a ben tre funzionari del Comune) era stampato “cittadino italiano” ma loro continuavano a concentrarsi solo sulla mia faccia nera, mentre la gente in attesa perdeva la pazienza. “Perché non leggete cosa c’è scritto sul documento?”, suggerii. Attimo di sorpresa ma…. finalmente mi diedero del lei. “Lei è cittadino italiano? Perché non l’ha detto subito? Noi non siamo abituati a vedere un extracomunitario…”». Pap Khouma ne ha spesso scritto di queste sue vicende metropolitane, riflettendo anche su alcune risposte che gli vengono date ogni volta. «Tu possiedi il passaporto italiano ma non sei italiano». Oppure, con un sorriso: «Tu non hai la nazionalità italiana come noi, hai solo la cittadinanza italiana perché sei extracomunitario». Ma accanto alla percezione di estraneità immutabile capitano anche episodi legati anche essi ad un preconcetto duro a morire, “sei nero dunque povero”.

Lo raccontava anche un’altra scrittrice affermata, vissuta tanti anni a Roma ed ora in Belgio, Cristina Ubax Alì Farah, agli studenti delle scuole che l’ascoltavano divertiti e incuriositi: «Io non ho avuto problemi con la cittadinanza perché mia madre è italiana – diceva – I primi tempi che vivevo a Roma più di una volta mi son sentita addosso sguardi sprezzanti. C’era chi ovviamente parlava con me usando i verbi all’infinito, come in Via col vento ma c’era anche chi, vedendomi in autobus con un figlio piccolo, si avvicinava e mi dava una banconota pensando che avessi bisogno. Allora non c’era la crisi e io guadagnavo decentemente ma ero vista come mamma nera, quindi bisognosa di carità».

Stefano Galieni