Letture meticce

Burhan Sönmez, l’esilio degli innocenti

Igiaba Scego - 23 Marzo 2014

turcoBurhan Sönmez ha l’aria timida dei filosofi, ma una grinta che spacca le pietre. Quando parla scandisce ogni lettera. Non vuole inciampare sulle vocali, non vuol farsi prendere dalla fretta che è sempre cattiva consigliera. In una società dove tutti corrono, lui ha imparato ad abbracciare il tempo con calma e ragionevolezza.
Burhan è nato ad Haymana, una pianura non priva di asprezza vicino ad Ankara. Burhan è dell’Anatolia, una terra che oggi in Turchia conta politicamente, regione descritta dal potere come molto pia e laboriosa. È in questa terra che Burhan muove i primi passi: per lui, di origine curda, è stato come vivere una sorta di esilio a casa propria. Il curdo non veniva insegnato nelle scuole turche, anzi veniva suggerito ai ragazzi di “dimenticarselo” magari anche in fretta. Le condizioni di vita poi non erano tra le più facili. I primi 14 anni di vita Burhan li fa senza la luce elettrica. Ma è in quegli strani anni giovanili che assorbe tutta la letteratura che gli capita a tiro.
Una volta ad Istanbul, la grande città fra i due mari, non solo si forma come avvocato, ma comincia a leggere ciò che di meglio il mondo ha prodotto, da Cervantes a Dostoevskij, da Garcia Marquez a Tolstoj. Una forte passione civile lo porta al giornalismo e a denunciare le ingiustizie. Ma la Turchia non è mai stata, ieri come oggi, tenera con i “ficcanaso”. Burhan paga caro il suo impegno e quello che era un esilio dell’anima diventa un allontanamento obbligato. Ora in Turchia, per fortuna, è riuscito a tornaci dopo tanti anni di esilio. Ha partecipato ai moti di piazza Taksim di cui è stato tra i narratori più tenaci.
La sua produzione artistica segue un po’ gli attraversamenti di questa vita raminga come attivista e giornalista. In ogni sua parola la tensione sociale si sposa alla grande dolcezza che pervade il suo modo di stare al mondo.
Gli innocenti, il libro edito in Italia dall’ottimo editore Del Vecchio, segue infatti questo filo della dolcezza e della coerenza politica.
Il protagonista, Brani Tawo, è originario di Haymana. Come l’autore. Vive nella Cambridge degli anni ’70 e sta lentamente cercando di ritornare ad una vita normale, fatti di ritmi, suoni, attese. Lui dalla Turchia è scappato. Il personaggio non indugia mai in spiegazioni politiche. Il dolore, l’ingiustizia, emergono sempre in modo delicato, quasi quotidiano. Non fa proclami, non si perde in dibattiti. Il suo dolore è rappresentato da un’insonnia che lo attanaglia e non dà tregua. Quando Feruzeh, la protagonista femminile, gli chiede se l’insonnia è cominciata all’improvviso, lui risponde, senza cercare nessuna pietà: «dopo l’incidente». Quella parola “incidente”, buttata lì quasi casualmente, racconta un universo. Gli incidenti sono le torture perpetrate dalla polizia, le vessazioni continue, le umiliazioni cocenti, la paura di chi vive sotto un regime autoritario, l’assenza di speranza. Solo davanti a Feruzeh, Brani riesce un po’ a lasciarsi andare al proprio passato, a tratti scomodo, a tratti bellissimo.
Feruzeh, anche lei, è lontana dal suo paese: l’Iran. Feruzeh, la bella Feruzeh, incontrata per caso in un negozio dal nome evocativo di Western Front. Come se quell’incontro tra due esili – uno per scelta (quello di Feruzeh) e uno obbligato (quello di Brani) – potesse avvenire solo in quella terra di mezzo che è l’Occidente. Ma il Western Front è anche un negozio di antichità, dove Brani è entrato alla ricerca di una macchina fotografica vista in una foto di famiglia. Ed è forse unicamente lì che un incontro tra due passati è stato possibile. Per Brani entrare nella famiglia di Feruzeh, conoscere la madre, i fuggiaschi, i poeti, i sognatori, porta ad uno sconvolgimento interiore mai provato. Quando Feruzeh, di cui Brani si innamora di un amore pudico e trasparente, è costretta a tornare in Iran per accudire la sorella malata, lui quasi impazzisce. Ma poi, piano piano, attraverso il riemergere del suo passato in Anatolia, riprende un contatto con quel se stesso perduto. È come se Burhan Sönmez, questo rivoluzionario autore silenzioso e tenace, ci dicesse che solo l’amore può curare l’esilio. L’amore di una donna, certo, come quello che Brani prova per Feruzeh, ma anche l’amore per se stessi e per la propria matria-patria.
Uno dei momenti più emozionanti del libro è quando il protagonista parla di Deniz Gezmiş. In Occidente è poco conosciuto, ma Deniz Gezmiş è un eroe in Turchia. Come ha ricordato l’autore in visita a Roma alla manifestazione organizzata da Radio Tre Libri, ogni persona in Turchia ha una storia su Deniz Gezmiş. Burhan stesso a sette anni lo credeva un personaggio delle favole, un personaggio mitico di cui gli adulti parlavano con grande orgoglio. Per lui bambino, Deniz era un eroe, Zorro o Robin Hood. I bambini facevano la conta per chi dovesse diventare il Deniz del giorno. Fu ucciso nel mese di Maggio e Burhan, insieme agli altri bambini, non sapeva che era stato ucciso dallo Stato. Questo giovane attivista, eliminato da uno dei tanti regimi militari che si sono succeduti in Turchia, è diventato una sorta di Che Guevara per i turchi, una persona che ha tenuto testa al potere. Non a caso si dice che le sue ultime parole siano state: “Lunga vita ad una Turchia pienamente indipendente. Lunga vita al Marxismo-Leninismo, lunga vita ai turchi e ai curdi che combattono per l’indipendenza. Dannazione eterna all’Imperialismo. Lunga vita ai lavoratori e ai contadini”.
Non a caso una delle barricate, l’ultima per l’esattezza, a Piazza Taksim nei recenti moti è stata chiamata Denizm in onore di questo giovane uomo caduto per le sue idee e per la sua terra.
Ma nel libro Burhan Sönmez cita innumerevoli romanzi, trattati, canzoni. E come se l’esilio si vincesse, oltre che con l’amore, con l’esperienza dei saperi degli uomini. Ed ecco che nel romanzo sbuca di soppiatto la voce catramata di Amalia Rodigues, le immense poesie di Hafez e la stima infinita che l’autore prova per Wittgenstein.
In questo libro dove ognuno porta dentro di sé un segreto ed un peccato, c’è anche molta voglia di ritrovare il bandolo di una matassa perduta.
L’ottima traduzione di Eda Özbakay ci aiuta a ripercorrere i passi raminghi dei personaggi sospesi tra infanzia e futuro. Le lotte non finiscono, sembra dirci Burhan Sönmez, ma l’unica arma per sopravvivere è quella di amare senza riserve. Solo nell’amore, quello puro che ci abbraccia nelle notti di insonnia, può esserci la medicina per l’amaro esilio. E solo nell’amore si può ritrovare l’energia per rimettersi in marcia. Non a caso durante i recenti fatti di Taksim, Burhan ha pubblicato The Aesthetic of Resistance, un breve pamphlet di impegno politico. Lì dice: «Le stelle risplendono di più nell’oscurità più completa. Le stelle stanno splendendo ovunque a contrastare l’oscurità di questo Paese». Le stelle in fondo, per Burhan, non sono altro che amore.

Igiaba Scego