Rosarno d'Italia

Gli sfruttati di Sant’Antimo (Na)

Luca Leva, Giulia Ambroso - 23 Marzo 2014

striscione_DSC0026Domenica 23 marzo. A Sant’Antimo (Napoli) piove. L’assemblea-manifestazione organizzata dai lavoratori bengalesi, per denunciare le condizioni di sfruttamento sfacciato con cui si lavora nelle fabbriche tessili dell’hinterland napoletano, si è svolta al chiuso, ma è stata davvero molto partecipata. Ci si guarda, ci si conta. «Siamo sempre di più», dice un partecipante. Sono una settantina di persone. Questa volta ci sono anche africani, pakistani e italiani di varie associazioni. Alla precedente assemblea-manfiestazione, lo scorso 9 marzo, nella piazza in fondo via Roma, erano quaranta. A novembre, quando questo movimento ha cominciato a prendere corpo, appena cinque, «Sono i bengalesi che abitano qua intorno» dice la gente del posto, che li vede uscire al mattino presto e rientrare a tarda sera senza mai interagire con loro. Si muovono a quattro, cinque alla volta per vicoli e vie ormai a loro familiari. Sono la forza lavoro delle industrie tessili dell’hinterland napoletano, garanzia di profitto per molti marchi del Made in Italy.
A Sant’Antimo, lo più confezionano giacche, all’interno di  quelle che chiamano fabbriche ma sono, in realtà, bugigattoli di pochi metri quadrati. Sottoscala, in comuni palazzine residenziali, dove d’inverno fa freddo, d’estate manca l’aria e la luce è bianca e poca: stretti finestroni attaccati al soffitto, coperti di plastica nera per schermare gli sguardi indiscreti. Impossibile uscire: gli accessi vengono chiusi a più mandate al mattino e riaperti col buio. In ogni stanza, un uomo controlla che tutti siano presenti, che non si chiacchieri, che si lavori senza soste arbitrarie. Ore 13, la pausa; appena mezz’ora e si è già tutti chini su macchine da cucire e ferri da stiro che sbuffano vapore. Solo per andare al bagno sono esentati dal chiedere permesso.
I proprietari delle “fabbriche”, che in genere sono date in affitto, non vedono e non sanno. All’esterno, furgoni gestiti da altri italiani caricano la merce, direzione Cis di Nola. Il carico, pagato al pezzo tra i 7 e i 9 euro, sarà da lì smistato e rivenduto a ben altre cifre: il valore sul mercato finale, di una giacca prodotta in queste condizioni, può superare i 200 euro.
Alle 21, il portone si apre. Sono liberi. Di tornare a casa, s’intende. È vietato trattenersi in strada dopo il lavoro, pena un “invito” a casa del cosiddetto padrone: un connazionale, che vive in Italia da oltre 15 anni, ed è arrivato a “possedere” quattro “fabbriche” per un totale anche di 120 uomini.
Gli operai arrivano dal Bangladesh secondo un copione ormai collaudato: in cambio di cospicue somme di denaro (si parla anche di 22 mila euro), ricevono un visto d’ingresso, un passaggio e la promessa di un lavoro sicuro e ben pagato (circa 1.600 euro mensili). Soprattutto, i visti e i documenti necessari nel nostro paese. Chi non ha il capitale iniziale recupererà una volta in Italia, lavorando gratis.
Il padrone in questione si occupa di tutto: documenti, alloggio. Ed è singolare la velocità con cui questo signore riesce ad ottenere tutto. A ogni modo, i documenti, una volta ottenuti, saranno da lui debitamente “trattenuti”. Evidenti questioni di sicurezza lo richiedono: sarà questa, il più delle volte, un’efficacissima arma di ricatto.
A dispetto di tutte le illusioni, ai neo-venuti, non resta che una brutale realtà: circa 14 ore di lavoro al giorno, un salario che oscilla tra i 200 ed i 300 euro mensili, il divieto di imparare e parlare l’italiano, di uscire di casa al termine della giornata lavorativa o anche solo di trattenersi un po’ nella piazza del paese. Per comperare cose di prima necessità, far la spesa, esistono rigidi turni in cui, solo ad uno per casa, viene dato il permesso di interrompere il lavoro alle 19.oo, appena in tempo per trovare i negozi aperti. Una vera e propria ghettizzazione forzata, tesa a minare alla base la possibilità di socializzare e condividere questi vissuti: la lingua non s’impara, con l’esterno non si comunica.
Poche regole ma precise e in caso di “infrazione” e/o proteste, scattano le ritorsioni: minacce, percosse, offese. «Se ti rifiuti di lavorare a queste condizioni vieni picchiato, minacciato, e poi c’è subito qualcuno che prende il posto tuo» dicono i lavoratori.
La violenza di questa realtà travolge non solo quando raccontano che «ad un amico ha spaccato la testa sulla macchina da cucire», o che «quando fai qualcosa di sbagliato ti invita a prendere un caffè a casa sua e lì ti picchia, a volte aiutato dal fratello e dai suoi uomini», la si tocca con mano anche quando si percepisce la loro paralisi persino nell’avvisare, nel mettere in guardia i nuovi arrivati. La loro motivazione è: «abbiamo paura, è meglio non parlare». Ed eccone altri cadere nella ragnatela.
Qualcosa, però, inizia a muoversi. Da novembre è iniziato un percorso fatto di piccoli passi avanti: un’assemblea pubblica in piazza, quella lì davanti alla chiesa, dove ogni mattino si passa senza esser visti. E poi la manifestazione di domenica 23 marzo.
Primi segnali evidente di una presa di coscienza: l’affermazione della volontà di confrontarsi e unirsi, condividere la paura, reagire. È un’azione sul presente per riappropriarsi di un futuro interamente da costruire, venendo da un passato dal quale, insieme e stando in prima linea, ci si può liberare.

Luca Leva
Giulia Ambrosio