Scor-data

16 aprile 2000

Sabatino Annecchiarico, Daniele Barbieri - 8 Aprile 2014

189-15_Ion_CazacuIl giorno in cui fu ucciso Ion Cazacu. Qualcuno ricorda la storia? Un delitto atroce, punito con una sentenza dura ma poi dimezzata, mettendo in dubbio l’omicidio volontario. Le parole di Nicoleta, la vedova, e di Florinda, una delle figlie.

Ion Cazacu, ingegnere rumeno che lavorava da operaio piastrellista nella ricca Gallarate, fu bruciato vivo dal suo datore di lavoro, Cosimo Iannece, il 14 marzo 2000. La sua “colpa”: aver chiesto di essere messo in regola. Morì un mese dopo, il 14 aprile, dopo atroci sofferenze per le ustioni che coprivano quasi il 90 per cento del corpo.
Iannece fu condannato a 30 anni sia in primo che in secondo grado (con il rito abbreviato per evitare l’ergastolo). Nel maggio 2003 la Cassazione ha annullato la sentenza per «carente motivazione» sull’effettiva volontà di uccidere dell’imputato e il 13 novembre dello stesso anno, davanti alla Corte d’Assise d’appello di Milano, si è aperto il nuovo processo concluso poi con la pena dimezzata, da 30 a 16 anni: è stata accolta la tesi della difesa di omicidio senza l’aggravante per motivi abietti. «Nel processo hanno cambiato anche i capi d’accusa; io e le mie figlie siamo rimaste sconvolte e deluse dalla giustizia italiana» disse amareggiata dopo la sentenza Nicoleta Cazacu, vedova di Ion.
Una sentenza «grave dal punto di vista politico per il messaggio che lancia», commentò all’epoca dei fatti l’avvocato Ugo Giannangeli, parte civile di Alina, una delle due figlie di Cazacu. Grave anche per l’indifferenza della maggior parte dei mezzi d’informazione.
Questo omicidio, quasi immediatamente dimenticato, entra nell’immaginario collettivo come un episodio di ordinaria e quasi quotidiana criminalità, invece che essere considerato un crimine barbarico da Medioevo. Dopo la sentenza questa fu la riflessione di Nicoleta Cazacu: «Una parte della gente sa cosa è successo a mio marito e fa finta di non saperlo, altre persone invece non lo sanno, ma tutte hanno qualcosa in comune: l’indifferenza. Quell’indifferenza che uccide e uccide soprattutto noi stessi».
Per favorire la memoria, quale antidoto dell’oblio e dell’indifferenza collettiva, per riportare una luce di giustizia sui fatti, trascrivo un frammento dell’intervista che feci alla figlia maggiore di Ion, Florina Cazacu, dopo che la Cassazione aveva annullato la sentenza nel maggio del 2003. L’intervista fu pubblicata il 29 maggio 2003 sull’ agenzia Migra News con il titolo «Ion Cazacu, bruciato per la seconda volta».

«Sono assolutamente sbalordita, non mi aspettavo una cosa simile. Non me lo aspettavo da loro: dalla giustizia. Affermano che non hanno avuto abbastanza prove per giudicare l’omicidio volontario. Non vorrei creare una polemica e intervenire nelle decisioni prese dai giudici: voglio credere che sappiano bene cosa hanno fatto. Ma mi sembra un po’ strano e non vorrei essere fraintesa: se uno porta benzina a casa di mio padre, gliela versa addosso e con il proprio accendino gli dà fuoco, cos’altro serve per capire se c’è o non c’è un omicidio volontario? Ripeto, non vorrei che questa mia osservazione qualcuno la prendesse per il verso sbagliato. Per me, anche se non posso essere obiettiva in questa storia, mi sembra sufficiente la prova dei fatti. Comunque, i giudici hanno preso questa decisione e avranno le loro ragioni».
Cosa significa per voi familiari questa decisione della Cassazione?
«Che dovremmo cominciare tutto da capo, tornando a Milano. Vedo la mia mamma stanca e distrutta. Lei era convinta che tutto fosse finito. C’è un abbattimento anche psicologico e morale. Il fatto stesso di tornare a Milano, non le dà pace. Per noi è molto difficile questo nuovo passaggio. Vorrei che finisse subito tutto».
Al tempo dell’intervista Florinda Cazacu aveva 21 anni ed era studentessa al secondo anno del corso di laurea in Giurisprudenza in Romania. Poliglotta: parla inglese, francese, spagnolo, italiano e certamente rumeno. Nata a Ràmnich Vàlcea (Romania) in un paese di 120.000 abitanti, ma viveva in Italia con un permesso di soggiorno “umanitario” e finanziava da sé i suoi studi. Non escludeva la possibilità di restare a vivere in Italia.
Suo padre migrò per l’Italia quando lei aveva appena 14 anni. Di lui cosa ricorda?
«Quando l’ho visto al mattino partire con le valigie sono rimasta molto triste. Ricordo ancora le parole che mi disse: “non essere triste, il tuo papa tornerà presto”. Il primo anno mi è mancato tanto e quando è tornato per la prima volta ero così felice che mi sono dimenticata della mia sofferenza quando era partito. Sentivo la gioia di quello che faceva, anche senza la sua vicinanza. Ero felice quando mi portava regali o semplicemente quando ci telefonava. Sapevo che lui non era venuto in Italia per il desiderio di conoscere un altro Paese. Lui l’aveva fatto per necessità. Aveva l’obbligo di portare avanti una famiglia. Per farci studiare, per vestirci, darci da mangiare».
Qual era l’immagine che lei aveva di quest’Italia?
«Quando mio padre ci telefonava dall’Italia mi credevo immersa in una favola per tutto quello che raccontava. E sognavo che un giorno anche noi lo avremmo raggiunto. Immaginavo l’Italia come un grande sole e credevo che il mondo fosse tutto rosa. Scoprii dopo che fra sogno e realtà, le cose erano e sono molto diverse. Che la vita non era così facile. Che si deve sempre lottare per andare avanti».
Qual è la difficoltà maggiore che ha trovato in Italia?
«Quando spiego a qualcuno che sono rumena, noto che certe persone fanno un passo indietro e mi sento guardata dai piedi alla testa. Sento una sensazione strana, come brividi. Questa è stata una delle difficoltà maggiori che ho vissuto. Personalmente potrei dire che sono americana o di un’altra nazione, per non sentirmi male. Ma io non provo vergogna di essere rumena. E lo dico anche se sento quella strana sensazione quando le persone fanno gesti come di distacco. Per fortuna non tutti sono così. Mi sono fatta amici e ho trovato persone con un cuore grande. Poi c’è una differenza tra il mio Paese e questo mondo. Noi siamo ancora tradizionalisti. In Romania ho vissuto cose che ancora qui non ho visto: una vita sociale più all’aperto, in piazza, per le strade. A fine anno si esce in strada per festeggiare, magari per bere un bicchiere di vino assieme a uno sconosciuto che come te festeggia. Questa stessa cosa abbiamo provato di riviverla con i miei qui: ma è stato impossibile. Qui quando ci hanno visti per strada sono scappati. Quasi come se avessero paura di noi. Non so perché: è una strana cosa. Forse noi siamo più comunicativi. Questo è uno dei motivi per i quali mi manca il mio Paese. E mi vien voglia di ritornare. Mi manca la Romania e mi manca il tempo di quando ero bambina assieme a mio padre».
Un’immensa tristezza, vero?
«Avevo 17 anni quando mi hanno tolto mio padre e io ho dovuto maturare in fretta. Ho dovuto fare la figlia e la mamma allo stesso tempo. Questa maturità mi ha portato ad avere una visione della vita che non possedevo. E questo è duro. Sento che ho una ferita che si chiuderà sì, ma lascerà per sempre la cicatrice. Se dovessi fare una fotografia di me, direi così: ho lasciato prematuramente quella bambina che credeva la vita fosse facile e ha dovuto imparare tutto in fretta e per forza. Mi hanno costretto a diventare adulta molto prima del tempo. Per questo c’è molta tristezza».
Ha un messaggio per gli italiani?
«Direi loro di lasciare tutto quell’odio che si trova in questo mondo e che cerchino di stare bene con se stessi. Poi di non fare tanta differenza tra loro e gli extra-comunitari, come sempre ci chiamano. Di considerare che tutti noi siamo partiti non per piacere, per divertimento. Siamo stati costretti a partire… Nessuno ama lasciare la propria gente, la propria cultura, la propria terra. Non è facile venire a vivere in un mondo che si vede strano, stranissimo».
Ma c’è qualcosa in particolare che chiederebbe agli italiani?
«Chiederei loro di offrirci almeno la possibilità dell’amicizia. Almeno questo. L’amicizia. E soprattutto di considerarci come persone. Persone come sono loro. Nient’altro».
Lei ha fatto notare più volte che siete chiamati extra-comunitari. Perché questa sottolineatura?
«Non mi piace questa parola. Quando la usano ho l’impressione che ci dividano. Sento che quando ci dicono extra-comunitari mettono da una parte il bene e dall’altra il male, il brutto, il cattivo. È vero che ci sono persone che arrivano in Italia e fanno danni, ma non si può giudicare un’intera popolazione per quello che ha commesso un singolo».
Due parole su Cosimo Iannece le vuol dire?
«Mi spiace per le sue figlie che non hanno colpa. Mi dispiace per loro che sono ancora piccole: credo che cresceranno in una società che tenderà ad emarginarle per il passato del padre. Però avranno la possibilità in un domani di “saldare i conti” con il padre. Magari quando uscirà dalla galera. Io questa possibilità non l’avrò mai. Quanto al padre, Cosimo Iannece, sarebbe stato sufficiente per me e per noi che lui riconoscesse i fatti. Non negandoli e macchiando la memoria di mio padre. Il ricordo di lui è l’unica cosa che ci hanno lasciato. E questa memoria non la cancelleremo né permetteremo che venga macchiata».
Tornando al recente annullamento della sentenza, può accadere secondo lei che Cosimo Iannece sia scarcerato? E in questo caso, vi sentirete sconfitte?
«Non credo che accada. Ma se così fosse, né mia madre né mia sorella e neppure io ci sentiremo sconfitte. Continueremo ad andare avanti. L’unica sconfitta in quel caso sarà la giustizia italiana.

Sabatino Annecchiarico