Rom-anzi

Cittadini rom

Sergio Bontempelli - 8 Aprile 2014

resize«I diritti dei rom e dei sinti non sono in contraddizione con i diritti di altri cittadini italiani». Con queste parole della Presidente della Camera, Laura Boldrini, si è aperto il Convegno nazionale Italiaromanì, organizzato dall’Associazione 21 Luglio e conclusosi nella giornata di sabato: e proprio la frase della terza carica dello Stato ha fornito – si potrebbe dire – il filo conduttore di tutto l’evento.

Già, perché è difficile tenere distinti i diritti degli “uni” (i rom) e i diritti degli “altri” (gli italiani): se non altro perché i due insiemi si confondono e si sovrappongono. Lo ha ricordato Marco de Giorgi, dell’Ufficio Nazionale Anti Discriminazioni (Unar), riportando un dato molto semplice: contrariamente a un senso comune diffuso, i rom e i sinti presenti in Italia sono in larga maggioranza (il 70% secondo i dati più aggiornati) cittadini italiani. E poi – soprattutto – è realistico sentirsi minacciati da una minoranza che rappresenta lo 0,3% della popolazione? Davvero riconoscere i diritti a un gruppo così sparuto potrebbe mettere in pericolo il nostro paese?

Segregare costa

Insomma, la storiella dei rom che rubano lavoro, casa e welfare agli “italiani” proprio non regge. Anzi: per quanto possa apparire paradossale, sono proprio le politiche del rifiuto – della segregazione abitativa, degli sgomberi, dell’esclusione dalle case popolari, della marginalizzazione forzata nei campi nomadi – ad avere costi insostenibili per le casse dello Stato (cioè per i contribuenti). Al contrario, una politica inclusiva, fondata sul pieno riconoscimento dei diritti, costerebbe meno (e sarebbe ovviamente più giusta ed efficace).

Lo dimostrano i dati raccolti nel dossier “Segregare costa”, curato da quattro associazioni (Lunaria, OsservAzione, Berenice, Compare) e uscito qualche mese fa. Dati che parlano da soli: per restare all’esempio di Roma, il mantenimento e la gestione dei campi alla periferia della città costa circa 14 milioni di euro l’anno, mentre per gli sgomberi si spendono almeno 15 mila euro per ciascun intervento. Una politica abitativa diversa, fondata sul pieno riconoscimento del diritto alla casa per i rom e i sinti, farebbe risparmiare qualche milione di euro alle casse dello Stato e dei Comuni: lo hanno ricordato, tra gli altri, Carlo Stasolla, animatore e presidente dell’Associazione 21 Luglio, e Luis Quimena Quesada, Presidente del Comitato Europeo dei Diritti Sociali.

Esperienze di segregazione…

L’Italia è passata in questi anni dall’«emergenza nomadi» – cioè dalle ordinanze del Governo Berlusconi, che trattavano la presenza rom alla stregua di una calamità naturale – alla cosiddetta «Strategia Nazionale di Inclusione»: un documento che recepisce le indicazioni dell’Unione Europea, e che chiede un vero e proprio “cambio di passo” nelle politiche sia locali che nazionali. Superamento dei campi nomadi, inclusione abitativa e lavorativa, scolarizzazione dei minori rom, contrasto alle discriminazioni, sono i “pilastri” della Strategia.

Eppure, a sentire i moltissimi interventi che si sono avvicendati al convegno, le cose non sono poi così cambiate. Le politiche locali sono ancora ferme al binomio campi/sgomberi, e le “strategie di inclusione” si concretizzano per lo più in documenti programmatici, dichiarazioni, annunci e impegni più o meno solenni: di concreto c’è poco o nulla. «Spesso», ha ricordato Elisa De Pieri di Amnesty International, «le amministrazioni locali continuano a perseguire le stesse politiche avviate ai tempi dell’emergenza. A Roma, per esempio, la Giunta Marino non ha ancora dato segnali di voltare pagina».

… e pratiche di de-segregazione

Se le cose sono rimaste così com’erano, se la Strategia nazionale non ha modificato concretamente le politiche nazionali e locali, cosa possono fare le associazioni e la società civile per contrastare in modo efficace la segregazione dei rom? Come creare le condizioni per un vero cambiamento? È su questo punto che le tante voci ascoltate al convegno hanno trovato un terreno comune.

A dare il via alla riflessione è stata Costanza Hermanin, della Open Society Foundations: «Nell’assenza di una rappresentanza politica dei rom e sinti», ha spiegato, «individui e organizzazioni hanno esplorato la strada del contenzioso strategico, cioè dell’azione legale. Così, dal 2008 ad oggi, molte questioni importanti sono finite nelle aule di tribunale. In molti casi si sono registrati importanti successi, come quando il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittima l’emergenza nomadi, e le connesse ordinanze del Governo Berlusconi».

Insomma, la strada legale può essere un efficace strumento – secondo molti degli  intervenuti al convegno – per sollecitare la politica, per spingere verso un reale cambiamento. Su questo terreno stanno lavorando da tempo la “21 Luglio” e l’Asgi, l’associazione studi giuridici sull’immigrazione. Le due sigle hanno presentato un ricorso contro il Comune di Roma e il Ministero dell’Interno, allo scopo di far dichiarare illegittimo il “villaggio attrezzato” de La Barbuta a Roma, uno dei campi nati durante la cosiddetta “Emergenza Nomadi”.

«La tesi che abbiamo sostenuto e sosterremo di fronte ai Tribunali», ha spiegato Salvatore Fachile dell’Asgi, «è che i campi sono dei veri e propri ghetti etnici, cioè strutture pensate esclusivamente per i rom. Si tratta quindi di soluzioni esplicitamente e chiaramente discriminatorie. Se i giudici ci daranno ragione, di fatto tutta la politica dei campi è destinata a saltare».

Se queste iniziative funzioneranno – come si usa dire – lo scopriremo solo vivendo. Intanto, il convegno si è concluso con un  flash mob di giovani rom e sinti davanti al Colosseo: qui sotto potete vedere il relativo video, tratto dal servizio televisivo di Rainews 24 e diffuso in rete dall’Associazione 21 Luglio.

Sergio Bontempelli