Masterpiece in ritardo. Di 20 anni

Igiaba Scego - 8 Aprile 2014

images snoopyA volte anche un programma di puro intrattenimento come il talent musicale The Voice of Italy sorprende. Mi è successo l’altra sera mentre facevo pigramente zapping tra i canali. Sullo schermo appare un ragazzo che canta la famosa Ain’t No Sunshine di Bill Withers. Il ragazzo originario di Cecina sfoggiava una mise frichettona anni ‘70, rasta giamaicani, una pelle color beige frutto dell’incontro d’amore tra sua madre nera e suo padre bianco e dulcis in fundo un nome Jean Jacques decisamente illuminista. Un crogiolo di incroci e percorsi insomma. Però cantava un po’ male il ragazzo… eh si la sua voce era un po’ piatta. Infatti la giuria (che annovera Raffaella Carrà, il rapper J-Ax, Noemi e il rocker Piero Pelù) lo ha bocciato, anche perché promuoverlo proprio non poteva. Prima di lasciare andare un concorrente che non ha superato il turno però è abitudine della giuria dire qualcosa, fare tipo una ramanzina, dare un consiglio, lanciare una battuta. Nel caso di Jean Jacques il toscano della giuria, il rocker Piero Pelù, gli ha detto «si vede che sei di Cecina, hai strimpellato quella chitarra come se fossi in spiaggia». Una battuta tra toscani, che forse il ragazzo non ha preso bene, ma che io da casa ho trovato incredibile. Il ragazzo era stato riconosciuto come toscano, di Cecina, cittadino. I rasta, la pelle nera, l’abito da cantante reggae non lo rendevano meno toscano. In quella battuta c’era tutta la realtà italiana multiculturale che non sempre viene presa in considerazione dalla Tv e c’era finalmente nella sua quotidianità, non come stereotipo.
In un’Italia sempre più in guerra con le diversità che la abitano quello scambio di battute mi è parso quasi (eh sì, lasciatemi esagerare) rivoluzionario. Certo non dimentico che sto parlando di un talent musicale che è uno strano incrocio tra Sanremo e il Grande Fratello, ma certi programmi loro malgrado possono lanciare dei messaggi positivi e tutto sommato quello scambio di battute è stato utile. Il dialogo mi è sembrato davvero modernissimo se confrontato con “il tocco di esotismo” che era stato affibbiato poco prima, nello stesso programma, ad una ragazza milanese di origine filippina emule di Joan Baez.
Interessante mi sono detta. Interessante sopratutto se confrontiamo le parole in libertà di Piero Pelù all’esito del talent letterario (eh sì, un altro talent) Masterpiece.
Portare la letteratura in Tv era la sfida degli autori del programma di Rai3. Una sfida secondo me persa. Ci sarebbero mille modi (sicuramente migliori) di portare la letteratura in Tv. Creare un format, certamente più breve, come il famoso Fahrenheit di Radio Tre per esempio o invitare scrittori/scrittrici in contenitori già di successo. Forse basterebbe solo parlare di libri ogni tanto, rendere questo oggetto “misteriosissimo” ai più finalmente famigliare agli italiani. Quando Roberto Saviano ha parlato della poetessa Wislawa Szymborska nel salotto televisivo di Fabio Fazio, la poesia che notoriamente non vende una rima in Italia, è schizzata al primo posto in classifica. E lo stesso era successo anche quando, sempre Saviano, aveva parlato della vita incredibile dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa. Un grande narratore conosciuto da noi solo dagli appassionati di letteratura africana, divenne improvvisamente mainstream. Basterebbe davvero solo parlare di letteratura per farla amare.
Invece con Masterpiece si è voluto strafare e si è creato un carrozzone un po’ noioso e a tratti snob che forse ci potevamo sinceramente tutti risparmiare. Io personalmente non ho sopportato (per i pochi istanti in cui mi è capitato di vedere il programma) quella cappa di serietà fuori luogo che per settimane ha fatto assomigliare lo studio televisivo in una succursale di Alcatraz, dando il messaggio (sbagliato) che la letteratura era una roba barbosa, cattiva e che se si arrabbiava ti mandava pure in punizione dietro la lavagna. Le musiche tetre di sottofondo poi non aiutavano certo a creare un clima di gioioso intrattenimento. Per movimentare un po’ le cose o forse per sincero interesse, vai a sapere qual è la verità, ha vinto un autore di origine migrante Nikola Savic. Il giovane veneziano, d’origine serba, si è imposto sugli altri 4 finalisti e vedrà il suo romanzo Vita migliore, pubblicato in svariate migliaia di copie.
Sono contenta per l’autore e per la possibilità che ha di pubblicare con una grande casa editrice. Ma riguardando il filmato su internet della proclamazione della sua vittoria qualche perplessità mi è venuta e non per lui, ma per i discorsi che sono stati cuciti intorno al suo libro e alla sua persona.
Elisabetta Sgarbi, editor di Bompiani, annunciando il suo voto decisivo a favore di Savic ha detto che il suo stile presenta qualche sgrammaticatura, ma si è affrettata ad aggiungere che «definirei queste sgrammaticature delle aritmie che danno un colore meticcio alla sua scrittura». La frase dell’editor però che mi ha colpito più di tutte è stata «scelgo come sempre la strada più difficile». Nikola Savic, in quanto di origine migrante, era una strada difficile e la signora Sgarbi non ha nascosto che su quel testo ci sarà un fortissimo editing.
È importante dire che Savic è arrivato in Italia da piccolo, a 12 anni, si è scolarizzato in Italia, si è laureato in Scienze della Comunicazione e ora fa il commerciante ad Oriago. Probabilmente il suo testo presenta delle sgrammaticature come lo presentano tutte le prime bozze dei romanzi, sia scritti da italiani da generazioni sia scritti da italiani di origine migrante.
Sgrammaticature… la parola mi gira in testa come un tornado.
Cosa dire davanti a tutto questo?
È stato un po’ come se la Tv – e lo fa spesso la Tv – ci riportasse secoli indietro, cancellando conquiste e dolori ottenuti dopo anni di sudore. Con un colpo di spugna Elisabetta Sgarbi, con le parole sgrammaticature e sfida, ha eliminato 20 anni di storia della letteratura scritta da migranti e figli di migranti in Italia e in italiano. Sulle sgrammaticature e sul meticciato furono fatte in letteratura 20 anni fa, che aprirono un discorso pubblico, quando i primi migranti raccontarono con l’aiuto di autori italiani le loro esperienze di vita. Come dimenticare Io venditore di Elefanti di Pap Khouma, L’immigrato di Salah Methani o Princesa di Fernanda Farias de Albuquerque. Libri bellissimi, ma scritti in cooperazione. Libri in cui ogni meticciato era stato fatto sparire, pur lasciando integro il nucleo della testimonianza. Emblematico il caso di Princesa, libro che nella prima versione era scritto in italiano, sardo e portoghese brasiliano e poi nella versione che è andata in stampa per Sensibili alle Foglie standardizzato in un italiano asettico, quasi da pronto soccorso, tanto era stato pulito e affinato. Poi si è smesso di scrivere sotto tutela. Scrittori e scrittrici hanno preso la penna (o la tastiera del PC) in mano e i libri se li sono scritti da soli. Certo l’editing selvaggio che cancellava ogni forma di meticciato era sempre in agguato, ma da racconto a racconto, da romanzo a romanzo, la sicurezza verso i propri mezzi è cresciuta. Inoltre, è bene ricordarlo, oltre ai migranti che hanno scelto di scrivere in italiano (non scegliendo quindi le lingue natie o le lingue europee a loro vicine, tipo le lingue degli ex colonizzatori) si sono affiancati negli anni i figli di migranti scolarizzati qui e che hanno l’italiano come prima lingua. Già 20 anni fa non aveva senso parlare di letteratura migrante, ma ora davvero il termine è più obsoleto che mai. Come si fa ad etichettare il talento di un poeta come Gëzim Hajdari o il brio di un affabulatore come Tahar Lamri? Imbrigliare gli imbarazzismi di Kossi Komla Ebri poi non avrebbe nessun senso. E le sgrammaticature slang di Gabriella Kuruvilla? Come gestirebbe Masterpiece le iperboli poetiche di Cristina Ali Farah? E l’ironia terrena di Amara Lakhous? Sono tanti gli scrittori e le scrittrici che in questi anni si sono fatti conoscere, leggere, amare. Certo la loro vita editoriale non è stata facile. Libri bellissimi sono presto spariti dalla circolazione o peggio, a scrittori di romanzi veniva chiesta la testimonianza, perché dal migrante, molti editori vogliono solo la storia strappalacrime da piazzare su qualche femminile poi.
C’è tanto talento in giro.
Ma è invisibile ai più.
Quindi quando Elisabetta Sgarbi, che in generale è una persona seria e competente, ha abbracciato il libro di Nikola Savic come una sfida da accogliere, io da scrittrice mi sono spaventata.
Quella frase ci riporta 20 anni indietro. Non lo possiamo permettere!
Non lo possiamo permettere noi come autori, ma non se lo può permettere nemmeno la letteratura italiana. Siamo in anni di meticciato culturale, dove dividere la popolazione letteraria in migranti e natii davvero non ha nessun senso. Basti pensare all’operazione (bellissima) di Timira di Wu Ming 2 e di Antar Mohamed. Questo libro, che narra le vicende dell’attrice italo-somala Isabella Marincola, a detta degli autori è meticcio nella sua essenza più profonda. Scritto da un cantastorie italiano dal nome cinese, insieme a un’attrice italo-somala ottantacinquenne e a un esule somalo con quattro lauree e due cittadinanze, Timira traccia una strada da dove non si torna indietro. Il futuro è il meticciato, sono le sgrammaticature artistiche, il futuro siamo noi popolo meticcio quando scrive, ma anche quando legge. Imbrigliare questo futuro sarebbe da stolti, qualcuno lo dica per favore agli autori di Masterpiece.

Igiaba Scego